Cultura e Spettacoli

Così Antonio Canova sconfisse Napoleone restituendo all'Italia le sue opere trafugate

In un avvincente romanzo storico l'artista in missione per conto del Papa

Così Antonio Canova sconfisse Napoleone restituendo all'Italia le sue opere trafugate

Si apre con Antonio Canova che rompe due dita di Ebe, la statua che sta ossessivamente scolpendo, il nuovo romanzo di Luca Nannipieri. Scorgiamo il magister - come all'epoca era chiamato l'artista di Possagno che aveva fatto fortuna a Roma - nervoso e insofferente alle attenzioni di Madame Beautè, amante ben informata, e con la testa rivolta a Domenica, unica donna ad avergli ispirato quell'ebrezza che tenta di riprodurre nel suo lucente e perfetto marmo, imitando gli antichi.

Che Candore immortale (Rizzoli, pagg. 240, euro 16) sia un romanzo storico-artistico piuttosto riuscito non stupisce: Nannipieri è critico d'arte, saggista e divulgatore capace, ma qui il valore aggiunto non sta solo nell'accuratezza delle fonti, nella velocità dei dialoghi e nel gusto dell'ambientazione (la decadente Roma papalina, la brulicante Parigi, i cortigiani del Pontefice e quelli di Napoleone, non poi così diversi nella loro cieca obbedienza alle regole dall'alto). L'originalità della storia vive nel racconto da un doppio punto di vista, quello dei vincitori e quelli dei vinti, delle spoliazioni artistiche durante l'ascesa di Bonaparte e delle conseguenti riappropriazioni dopo la sua caduta. Il tema - se solo pensiamo ai recenti annunci sulle restituzioni di beni trafugati dal nostro Paese e finiti sul mercato americano e da lì in importanti musei - è attuale e intrigante: all'epoca come andarono davvero le cose? Perché l'arte divenne ostaggio di guerra? Luca Nannipieri lo svela in una narrazione di fantasia, ingentilita dalla presenza di due eroine femminili assai più attive e caparbie dei tanti uomini protagonisti e infarcita di combattimenti sul campo, chiese razziate e trasformate in dormitori, impiccagioni e ghigliottine.

I fatti citati però sono veritieri e si riferiscono agli anni che vanno dal 1796 al 1815, ovvero dalla conquista d'Italia da parte delle truppe di Napoleone fino al suo esilio e all'incarico conferito dal Papa ad Antonio Canova di recuperare le opere saccheggiate dalle campagne imperiali e finite in terra francese. In un'alternanza di capitoli al di qua e al di là delle Alpi, seguiamo la galoppata napoleonica, l'idea politica dell'arte «che è più affilata della spada nel forgiare lo spirito», il progetto di un museo (il futuro Louvre) «per scuotere le moltitudini» fino a una sorta di delirio finale, con il desiderio di erigere un museo-mausoleo per confermare il mito di un impero e del suo duce, spoliazione dopo spoliazione. Un Canova dapprima indifferente agli eventi, ripiegato sui suoi tormenti amorosi e spettatore passivo delle razzie napoleoniche si trasforma, per desiderio di riscatto (politico e sentimentale), nell'artefice di alcune importanti restituzioni che con dovizia Luca Nannipieri trascrive in appendice, un elenco che dà la misura di quanto sia parziale la pezza cucita sulle lacerazioni causate dai saccheggi di Napoleone.

Se oggi possiamo ammirare nei nostri musei alcuni dipinti di Raffaello e Tiziano, il merito è anche dello scultore di Possagno il quale, incaricato della missione, si preoccupò di riportare a casa, dopo complesse trattative, il meglio dell'arte italiana, oltre alle opere greco-latine che reputò importanti. Tra queste, lo straordinario gruppo del Laocoonte, feticcio e ossessione dello scultore, attorno al quale ruota buona parte del romanzo e che si può ammirare ai Musei Vaticani. Particolarmente riusciti sono i ritratti dei due co-protagonisti, Napoleone l'usurpatore e Canova il restitutore, e dei francesi Dominique Vivant Denon, Jacques-Louis David e Jacques-Pierre Tinet che incisero nella formazione della prima collezione del Louvre e nell'idea, innovativa per l'epoca, di un museo di arte totale.

Spicca anche, e qui si vede la tigna dello storico Nannipieri nel recuperare fonti non scontate, la figura di Antoine Quatremère de Quincy, cui il romanzo dedica intense pagine: è stata una delle pochissime personalità del tempo che, tra fine '700 e inizio '800, condannarono, seppur non pubblicamente (l'autore ha usato come documenti alcune lettere private), la prassi comune per cui ogni popolo vincitore aveva il diritto di accaparrarsi il bottino d'arte del popolo sottomesso.

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