Cultura e Spettacoli

Così la chitarra di Page ha suonato il lato selvaggio del rock (e dell'anima)

Cinquant'anni fa l'esordio della band più feroce e decisa nel superare i limiti. In tutti i sensi...

Così la chitarra di Page ha suonato il lato selvaggio del rock (e dell'anima)

Vorremmo celebrare questi cinquant'anni dalla nascita al mondo dei Led Zeppelin dicendo qualcosa di nuovo. Uno dei tre gruppi più influenti della storia del rock (con i Beatles e i Pink Floyd). Il più grande cantante, forse, della storia del rock: Robert Plant. Uno dei tre chitarristi più importanti: Jimmy Page, sessionist per dna, con la sua passione per il satanismo. Un batterista geniale: Bonzo. Una ventina di canzoni leggendarie, ciascuna delle quali basterebbe da sola a collocarli sull'Olimpo.

Tutte cose che sappiamo, sulle quali la storia si è già pronunciata. Tutto quello che potremmo dire su di loro è già stato detto, perché parlare dei Led Zeppelin è come parlare di Dante, di Dostoevskij, di Beethoven, di Caravaggio. Non stiamo facendo classifiche di merito, ma solo di grandezza oggettiva, misurabile: esistono «mondi» diversi, poesia letteratura musica sinfonica moda calcio fisica chimica, e così via; e per ciascuno di questi «mondi» c'è qualcuno o qualcosa che ne delimita i confini. Tutto ciò di cui si parla all'interno di quei mondi presuppone, in qualche modo, anche coloro che ne segnano i confini. Così come parlare di poesia è sempre in qualche modo un parlar di Dante, e parlare di pittura è sempre in qualche modo un dire di Giotto, o Caravaggio, o Velázquez, così parlare di rock vuol dire parlare dei Led Zeppelin, sempre e comunque. Perciò gli elementi della loro storia, prima fatta di rock ortodosso e poi di rock eterodosso, di esplorazioni che li hanno condotti a superare diversi confini etnografico-musicali (quello del rock-blues con il rock celtico di Stairway to Heaven, quello dell'Occidente con Kashmir, per fare due esempi), sono elementi che definiscono la parabola non soltanto della loro carriera, ma del rock come tale, il suo senso.

La storia della cultura è per sua natura duale (forse la conoscenza stessa è duale). Beatles/Rolling Stones - ma anche Beatles/Beach Boys. Dante/Petrarca. Tolstoj/Dostoevskij. Mozart/Beethoven. Milano/Roma. Inter/Milan. Mods/Rockers. Armani/D&G. L'elenco potrebbe essere infinito. Ogni elemento della coppia aiuta a meglio comprendere l'altro. Esistono, però, coppie squilibrate, in cui uno dei due elementi, storicamente, per qualche ragione ha prevalso sull'altro, al di là dei giudizi sul valore. I Beatles hanno vinto (anche se chi scrive preferisce gli Stones). Dante ha vinto. Allo stesso modo gli Zeppelin hanno vinto - di stretta misura - sui Deep Purple. Se osserviamo queste coppie squilibrate, la prima cosa che viene da dire è che a prevalere sono stati quelli che hanno osato di più, quelli che si sono messi contro la cultura, contro il «si fa così», contro la giusta melodia, il giusto ritmo, il segno giusto, la giusta postura, contro l'accademia. Vien da dire che a prevalere è stato chi ha «sbagliato» di più. Non dico soltanto «osato», ma anche «sbagliato», ossia osato troppo.

Tutte le volte che li ascolto, i Deep Purple mi sembrano superiori ai LZ. Più elaborato il fraseggio musicale, sicuramente più colta, preparata, più alta la chitarra di Ritchie Blackmore rispetto alla violenza di Jimmy Page. Ma, una volta riposti i cd, il primato resta ai LZ: Ritchie è un fenomeno, però Jimmy è il Mike Tyson dei chitarristi, un misto (come Iron Mike) di genialità e di forza bestiale.

Ora, si può dire che tutta la storia delle arti cominci e si affermi per «strappi» in cui la parte istintuale, ribelle, pericolosa, ergastolana dell'uomo prende il sopravvento su quella normativa, seria, civile. Non conta chi dice le cose più intelligenti, e nemmeno chi le dice meglio: conta chi per primo riesce a strapparti il cuore! In questo i LZ sono stati maestri. E lo sono stati anzitutto attraverso il teatro che seppero mettere in piedi. Le loro canzoni più importanti sono anche epopee romantiche, pièces teatrali in cui un dramma si va consumando, da Baby, I'm gonna leave you a Dazed and Confused, da Whole Lotta Love a Since I've been loving you. Monologhi, atti unici violenti fino all'asfissia. L'ammiratore del satanista Aleister Crowley certo amerebbe quello spaventoso racconto che è Santa Cecilia di Heinrich von Kleist.

Come in Eschilo, anche nei LZ è la tensione (erotica) tra due poli a generare il racconto. In loro - nelle loro canzoni ma anche nei loro concerti - il coûp de théatre sta, spesso, nell'inversione tra elemento maschile e femminile. La chitarra di Page diviene una specie di geisha, pronta a soddisfare il maschio-padrone in ogni suo capriccio - un'idea questa alimentata dalla gestualità di Page, come quando, con atto punitivo, la suona usando l'archetto - mentre è fuori di dubbio che la gestualità e la tragicità isterica, molto plateale, la capigliatura biondo-ricciuta e gli acuti striduli di Plant rinviino in modo caricaturale a una femminilità violata. Plant vive in simbiosi con l'umiliazione della chitarra, ne è il doppio parlante: come quando, in Whole Lotta Love, imita l'orgasmo femminile. Questo disprezzo esibito, questa allusione a una femminilità sottomessa - ricordo il titolo di un brano, Living loving (she's just a Woman) - apre, nella sua brutalità, una finestra su una sessualità trasversale, ambigua, non definita. L'età del rock è stata anche questo.

Nella memoria di un uomo di sessant'anni, come me, fratello minore di quelli che andavano in acido ascoltando i Beatles, il mondo del rock ha l'aspetto di una cosa selvaggia, incivile, non domestica, della parte nera che esiste in ciascuno di noi, e i Led Zeppelin ne sono gli ambasciatori. Passione, perdita del controllo, liberazione degli istinti, amore sì ma sempre un po' egoista, poco propenso a «dare», e una vita da bruciare in fretta, da consumare senza sosta, anche se poi la sosta arriva, e cupi pensieri di morte, o sogni di viaggi allucinati, dominano il tempo. Questa è l'arte dei Led Zeppelin. Nella loro canzone più bella, Kashmir, il sogno di un viaggio esotico/estatico si scontra con il disagio e la sofferenza, e con la necessità di spiegare perché mai un uomo cerchi se stesso nell'estraneità: «Tutto quello che vedo imbrunisce/ Mentre il sole brucia la terra/ E i miei occhi si riempiono di sabbia.

/ Mentre scruto questa terra desolata/ Cerco di trovare, cerco di trovare, dove sono stato».

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