Cultura e Spettacoli

Così Dante rese poetica la parolaccia

Il filologo Sanguineti analizza l'uso del turpiloquio nella "Commedia"

Così Dante rese poetica la parolaccia

Il 2021 segna i 700 anni della morte del sommo poeta italiano, e si aprono le ennesime discettazioni sulla sua valenza, sui suoi studi accademici o semplicemente scolastici, sempre troppo semplificati in vista di una fruizione da quiz a premi televisivo.

Se tutto il mondo ci invidia la figura di Dante Alighieri, scoperto a livello internazionale molto prima di quello che potremmo pensare, da Cristina da Pizzano (nata un secolo dopo) e meglio conosciuta come Christine de Pizan, la quale in anticipo su chiunque, e con molti punti biografici in comune con il fiorentino, parlava dell'opera di Dante come di qualcosa «senza paragone», noi abbiamo sempre qualche remora ad accostarci in modi che non siano istituzionali alla sua lingua e opera.

Eppure le opere dantesche ci offrono anche spunti di divertimento filologico, fatto di scoperte e studi che ne svelano un lato giocoso della sua conoscenza e in questo Le parolacce di Dante (Tempesta editore, pagg. 98, euro 98) di Federico Sanguineti ha un ruolo essenziale.

Un agile libretto che permette di immergersi nella materia viva dantesca, la sua lingua, e di farlo con un lavoro di comparazione letteraria e filologica incredibile per la sua concisa acutezza.

Innanzitutto, come dice nell'introduzione Moni Ovadia «è bene non farsi trarre in inganno, perché siamo di fronte a un libro colto ed eccentrico che conviene leggersi per mettersi in relazione singolare e innovativa con il padre della nostra letteratura mondiale di tutti i tempi». Sì, perché Sanguineti ci propone un viaggio nelle strade alternative alla comprensione del Sommo e dei meno noti processi che lo portarono allo sviluppo della sua prodigiosa lingua.

Viaggio «affascinante e contropelo» nelle parole e nelle parolacce, quest'ultime però da non intendersi come la svilente attitudine del quotidiano a cui siamo abituati, ma come un continuo alternarsi tra la percezione della parola in ogni sua sfumatura, connotazione stilistica, storica e ogni suo rimaneggiamento/interpretazione da parte di terzi come i copisti, i censori o critici.

Sì, è vero che nella Divina Commedia le parolacce ci sono e ce n'è un uso abbondante, soprattutto nell'Inferno, basti pensare a sterco, merda, merdose, puttana, cul, le fiche, vacca, fin ad arrivare al Paradiso, dove compare vagina, rivelandosi come un poema sede non solo del sublime ma anche della sua nemesi, ma è anche vero che non si tratta di parlare solo della loro verve bassa, quanto del loro valore proletario, dell'universalità spesso additata negativamente da altri illustri colleghi di cui godeva la scrittura dantesca. Universalità che si rivolgeva a maniscalchi, contadini, che permetteva, e ha permesso anche negli anni a venire, all'opera di Dante di essere trasmessa, fruita, anche se non la si capiva, poiché si percepiva la sua bellezza.

Un plurilinguismo dantesco manifesto soprattutto nella grande ricchezza lessicale, che va da termini alti e aulici, passando per latinismi e francesismi, provenzalismi, neologismi, nonché linguaggi inventati, fino al più basso turpiloquio, alla parolaccia appunto. Accanto alla concezione più comune però, della mala parola, si scoprono in queste pagine anche le connotazioni stilistiche, fatte di misure e scelte: come la Z, un suono ignobile e disadatto alla poesia, «tale da ridurre a parolaccia la parola che lo contiene», che però apre il poema, insieme ad altre parolacce (da intendersi ora come sconvenienti per uso, metrica etc) che derivano da un uso inappropriato dello iotacismo, mitacismo e labdacismo «Nel mezzo del cammin di nostra vita», e che rendono tutto ancora più scandaloso «perché, data la presenza di Z nel primo endecasillabo, l'incipit non può che suonare cacofonico all'autore stesso».

E questo è solo uno degli esempi presenti tra le pagine del lavoro di Sanguineti, a cui vanno aggiunte tutte le rivisitazioni di censure religiose o peggio le banalizzazioni attuate da copisti disattenti o troppo zelanti nel voler riportare alla luce i testi originali e il loro spirito più alto.

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