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Così i fratelli Strugackij usarono la fantascienza per uccidere il "giallo"

Un apparente delitto della camera chiusa diventa il killer del romanzo poliziesco

Così i fratelli Strugackij usarono la fantascienza per uccidere il "giallo"

Nel 1958, terminato il suo terzo romanzo poliziesco, La promessa, Friedrich Dürrenmatt gli diede un sottotitolo laconico e persino minaccioso: Requiem per il romanzo poliziesco. È il narratore della storia, «il dottor H., ex comandante della polizia cantonale di Zurigo», parlando peraltro con uno scrittore, a motivare la morte del genere: «Di un fatto non si potrà mai venire a capo nel modo in cui si risolve un calcolo matematico, se non altro perché non arriviamo mai a conoscere tutti gli elementi necessari ma disponiamo solo di alcuni dati, per lo più marginali. E troppa importanza assumono allora il caso, l'imprevisto, l'imponderabile». Dunque, secondo «il dottor H.» gli assassini del romanzo poliziesco, e in senso lato del giallo, cioè di qualsiasi indagine volta a fare completa luce su un crimine, sono quei tre, «il caso, l'imprevisto, l'imponderabile».

Fu proprio dopo aver letto La promessa che i fratelli russi Arkadij e Boris Strugackij decisero di cimentarsi nel romanzo giallo, uscendo per qualche mese dal loro campo prediletto, la fantascienza, che coltivavano a quattro mani già da un decennio e che avrebbero continuato poi a coltivare ricavandone ottimi frutti. E anche loro vollero fare un... funerale al genere. Il titolo originario non era granché, Un caso di omicidio. In compenso il sottotitolo era molto stuzzicante: Ancora un requiem per il romanzo giallo, dichiarato omaggio al maestro Dürrenmatt. Correva la primavera del 1969, e correvano anche Arkadij e Boris, da una redazione all'altra delle riviste di Leningrado, per piazzare il loro libro. Si rivolsero perfino a L'operaio edile... Niente da fare, quello era considerato un prodotto troppo «apolitico» e troppo «asociale». «Alla fine - scrisse Boris nel suo diario - dovendocela vedere con la rivista Junost', nonostante tutto, ci arrendemmo disgustati e trasformammo i gangster in neonazisti». Comunque, quelli della moscovita Junost' un piccolo merito lo ebbero, cambiando il titolo in L'albergo dell'alpinista morto, molto più accattivante. Tolsero tuttavia il sottotitolo, ripristinato ora nella prima edizione italiana (Carbonio Editore, pagg. 243, euro 16,50, traduzione e postfazione di Daniela Liberti).

Trattandosi di un «romanzo giallo» molto particolare, possiamo svelare subito il colpevole. Non il colpevole del caso in oggetto, ma il killer del «romanzo giallo» in quanto tale. Il colpevole è la fantascienza e i mandanti sono ovviamente i due fratelloni Strugackij. La storia gialla è riassumibile in poche parole. L'ispettore Peter Glebski, specialista non in omicidi, bensì in reati tributari, arriva all'«Albergo dell'alpinista morto» per trascorrervi due settimane di ferie tra sciate (siamo ad alta quota, all'inizio di marzo), buona cucina e relax. Ma dopo poche ore deve mettersi al lavoro. Fra gli ospiti c'è infatti qualcuno che ruba e che lascia messaggi minatori. E fin qui, poco male, potrebbe bastare un detective d'albergo. Ma quando un nuovo ospite viene trovato morto, e non per cause naturali, nella sua camera chiusa dall'interno, ecco piombare in scena l'enigma della camera chiusa alla maniera di Agatha Christie, per intenderci. E qui finisce la storia gialla.

Perché a quel gruppetto di dieci persone (omaggio proprio alla regina del crimine e al suo Dieci piccoli indiani, anche se il morto resta uno solo?) si aggiunge un misterioso convitato di pietra sotto forma di cambio di prospettiva, di apertura a una dimensione non umana, o quantomeno non del tutto umana. A introdurlo è il proprietario dell'albergo. Per tentare di risolvere il busillis, il signor Snevar ipotizza infatti la presenza di zombie, vampiri, licantropi, cita persino kitsune, il demone volpe della mitologia giapponese. Pare inoltre che, sotto mentite spoglie, nell'albergo ci sia un gangster in fuga sia dalla polizia, sia dal capo della sua banda. Pare che Campione, il boss, possa arrivare da un momento all'altro. Pare che i criminali professionisti abbiano ricattato e schiavizzato dei robot...

Mentre svapora la tensione per l'indagine sul morto (o non morto?) che ha raggiunto l'apice quando una valanga isola l'albergo, monta il vero caso. Il signor Simonet, un fisico un po' pazzo, si spinge oltre le congetture di Snevar e chiama in causa gli alieni. Al che Glebski sbotta: «Eppure, lei non è più un ragazzino, Simonet! È abbastanza grande per capire: se si ricorre all'arsenale della mistica o della fantascienza, qualsiasi crimine può essere spiegato, e avrà sempre una sua logicità. Ma le persone ragionevoli non si lasciano abbindolare da una tale logica». Tuttavia, il quadro delineato da Simonet appare coerente, sul piano narratologico... Quindi, a restare con il cerino in mano è il sempre più basito ispettore, il quale si trova di fronte a un doppio problema, giuridico e morale. La legge degli umani si deve applicare anche ai non umani? E le vittime non umane devono essere salvate?

A questo punto, Agatha Christie può andare tranquillamente a bere il suo tè in compagnia del giallo classico. La parola passa, in anticipo di dieci anni, a Philip K. Dick con il tormentato rapporto fra umani e androidi. Che questi ultimi sognino pecore elettriche, resta una questione di lana caprina.

Invece, che quello architettato da Arkadij e Boris Strugackij sia un delitto perfetto, è certo.

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