Stefan Zagurski è davvero una Canaglia, e non da poco: ubriacone, violento con la moglie e i figli, traditore, attaccabrighe, durante la Seconda guerra mondiale è finito nelle mani dei nazisti, poi è stato un giustiziere per i partigiani polacchi, dopo la guerra è stato imprigionato dai comunisti e, insomma, è un uomo senza pace, senza posto nel mondo, con un'anima nera e crudele che si estende su tutto ciò che lo circonda. Ora, che è vecchio, si trova in una casa di riposo per eroi di guerra, a Varsavia: ed è lì che il figlio Tadek, anche lui giovane padre già fallito, va a trovarlo, dopo anni e anni. Tadek vive a Gerusalemme, dove la madre Eva ha portato la famiglia per sfuggire a Stefan. Canaglia di Itamar Orlev (Giuntina, pagg. 400, euro 19) è questo: la storia di un figlio che va a cercare il padre perduto, e col quale percorre un viaggio nel passato della propria famiglia e dell'Europa, nella Polonia del 1988. Con questo suo romanzo d'esordio Orlev, che è nato a Gerusalemme nel 1975 e da qualche anno vive a Berlino, ha vinto il Premio Sapir in Israele e il Prix du Meilleur Roman des lecteurs Points in Francia. Ne parlerà domenica 12 giugno a Firenze, alla Città dei lettori (Villa Bardini, ore 20).
Itamar Orlev, come le è venuta l'idea del romanzo? Sembra quasi una storia vera...
«Questo romanzo è nato circa trent'anni fa. Mio padre, Uri Orlev, è uno scrittore famoso in Israele, autore soprattutto di libri per bambini, ed è un sopravvissuto all'Olocausto. A un certo punto il regista Ami Drozd andò da lui per chiedergli se potesse girare un film da uno dei suoi libri. Decisero di scrivere la sceneggiatura insieme e, così, iniziarono a raccontarsi storie a vicenda».
Quali storie?
«Soprattutto della loro infanzia in Polonia. Ami, come mio padre, è nato lì, anche se dopo la guerra, nel '52. Ami raccontava della sua vita là, negli anni Cinquanta, e della figura del padre, Stefan... Mio padre avrebbe voluto scrivere un libro su di lui, così ha iniziato a raccogliere il materiale e a fare interviste».
E poi?
«E poi non è riuscito a scrivere il libro, perché odiava troppo Stefan. Così, qualche anno fa mi ha dato tutti i nastri, li ho ascoltati e sono rimasto stupefatto... e ho chiesto ad Ami se potessi scrivere un libro su Stefan. Ma, quando mia moglie ha letto le prime cinquanta pagine, ha detto solo: Carino».
Non funzionava?
«All'epoca scrivevo biografie, vite di persone che volevano che la loro storia fosse pubblicata. Ho messo da parte il romanzo per un anno. Dovevo capire che cosa volevo dire».
Come lo ha scoperto?
«In quell'anno è nato il mio primo figlio e così ho capito: volevo scrivere della relazione padre/figlio. Allora ho preso alcune delle storie, ne ho messe da parte altre, altre ancora le ho inventate e ho fatto una specie di zuppa di realtà, fantasia, cose mezze vere e mezze immaginate... Tadek è un po' me e un po' sé stesso».
Stefan è veramente cattivo. Come si tratta un personaggio così?
«Ho cercato di mostrare anche gli altri suoi lati: era un uomo sadico e crudele, ma anche divertente e carismatico. Avevo visto che Ami lo amava e lo odiava allo stesso tempo. Però lo Stefan del romanzo non è quello reale: è uno con cui, comunque, hai voglia di parlare... È talmente un buon personaggio che, dopo di lui, mi è stato difficile divertirmi così a scrivere di qualcuno».
I mostri del passato incombono: la Seconda guerra mondiale, il nazismo, l'Olocausto, i lager polacchi, il comunismo... Come ha affrontato temi così presenti, nella letteratura israeliana ma non solo?
«Innanzitutto, mio padre è un sopravvissuto all'Olocausto: ha scritto libri sull'argomento e ci ha raccontato molte storie, anche divertenti, perché erano sempre narrate dal punto di vista dei bambini. E poi mio padre è nato in Polonia, dove ha scoperto di essere ebreo solo prima della guerra».
È un tema «familiare»?
«Per me sì. Ammetto di avere un po' di ossessione per questa parte della storia e della Seconda guerra mondiale, infatti ne sto scrivendo anche adesso, per il nuovo romanzo che uscirà l'anno prossimo. È un argomento che è dentro di me, non solo l'Olocausto, anche perché da sei anni vivo a Berlino, e qui c'è la storia del Novecento».
E la Polonia?
«È buffo, ma ci sono andato solo dopo la pubblicazione del romanzo. Ma molte delle persone di cui scrivevo le biografie erano nate lì, e conoscevo le loro storie; poi c'erano i ricordi di mio padre, i film di Kieslowski, i poeti... Insomma per me era naturale scrivere della Polonia e di quell'epoca».
E il viaggio alla ricerca delle proprie origini?
«Il viaggio del romanzo è avvenuto davvero, e proprio nel 1988, un periodo importante, appena prima della fine del comunismo, quando tutto era sull'orlo del collasso, e i confini erano stati già aperti».
Stefan è stato tradito da tutti i regimi?
«Sì, come molti ha sofferto per colpa di entrambe le parti. Prima è stato nel mirino dei tedeschi perché era un partigiano, ed è finito in un campo di prigionia, Majdanek, dove è stato torturato, e da dove è riuscito a fuggire: e la sua fuga è totalmente vera, anzi, la prima versione era più lunga. Poi è entrato nell'Armia Krajowa, dove si è vendicato, occupandosi delle uccisioni dei collaborazionisti; però l'Armia Krajowa era contro i comunisti, perciò, dopo la guerra, i bolscevichi lo misero in prigione e lo condannarono a morte».
Come si è salvato?
«Grazie a un amico dei tempi di Majdanek, un generale che, molto più furbo di lui, aveva fatto carriera nel Partito comunista. Stefan era un uomo che amava andare in un bar e iniziare una discussione solo per fare a botte: era il suo carattere, essere sempre contro tutto».
Ci sono davvero eroi di guerra, nel romanzo?
«Direi di no. Stefan non è un eroe, per quello che ha fatto in guerra, e perché gli eroi non sono alcolizzati violenti che distruggono le case altrui... Il generale è un eroe, ma porta sempre la sciarpa, per coprire la cicatrice che gli è rimasta quando ha tentato di uccidersi, a Majdanek: dentro di sé prova vergogna. L'unico eroe del libro è la madre Eva, lei sì che è veramente forte».
Com'è l'incontro fra padre e figlio?
«Un fallimento. Tadek si aspetta qualcosa di significativo dal padre, un riconoscimento che, però, non può arrivare, perché Stefan è troppo egoista per dare qualcosa».
Ma è un fallimento totale?
«In effetti no. C'è qualcosa che cambia, in Tadek, e gli fa capire come essere un padre migliore.
E poi credo che riesca a perdonare il padre, quando lo vede in tutta la sua fragilità, nella scena della vasca da bagno: e penso che faccia la cosa giusta, perché perdonare rende più semplice affrontare i guai del proprio passato».
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