Nel 1985 passai alcuni mesi in Egitto, al Cairo. Il muro di Berlino era in piedi e in Urss l'epoca di Gorbacëv non era ancora arrivata. L'unica radio in lingua italiana che riuscissi a captare trasmetteva da Mosca ed esaltava le conquiste del regime sovietico. Nel tempo in cui non lavoravo andavo in giro per la città. Due volte mi persi in mezzo a scritte in arabo e voci dal volume sempre troppo alto, e clacson insistenti, e aria irrespirabile, ma fu anche grazie a tutte queste cose che m'innamorai per sempre di questa incredibile città.
Quello che avremmo imparato a conoscere come terrorismo islamico faceva allora le prove generali, anche se i movimenti integralisti esistevano già, come i Fratelli Musulmani (riconoscibili al tempo per la barba nera senza baffi e il caffetano bianco), responsabili - così sembra - quattro anni addietro dell'omicidio del troppo filo-occidentale Anwar al-Sadat. Ma i musulmani «normali» erano gente pacifica, le donne non andavano in giro velate e Il Cairo era considerata una delle metropoli meno violente del mondo.
Mi ospitava un convento francescano della Custodia di Terra Santa, situato in un quartiere molto popolare della città, Bulaq. Qualche volta ho aiutato i padri nelle loro missioni quotidiane, quasi sempre in soccorso di poveri e malati, oppure in giro per ministeri, e sono stato in molte case musulmane - tutte povere. In molte di queste case un posto speciale era occupato dall'immagine (quasi sempre aerografata, nello stile dei vecchi manifesti cinematografici) della Madonna, in cornici di plastica dorata, davanti a cui ardeva spesso un lumicino.
Una volta chiesi a una donna la ragione di questa consuetudine, e lei, allargando le braccia, rispose: «Perché è la madre!».
La profondità per me insondabile di questa risposta mi rinviò precipitosamente a ciò che io sapevo di Maria, che da buon cattolico pregavo tutti i giorni senza che nemmeno mi sfiorasse il cervello l'idea di rivolgermi a qualcosa di così abissale. Che cos'è una madre? Perché mai il cielo sarebbe vuoto, a dispetto di tutti gli dèi, se non fosse popolato da una madre? Non da un astratto spirito di maternità ma da una persona precisa. Era alla persona che queste donne accendevano i loro lumicini.
Anni dopo, durante il mio viaggio in Terra Santa, a Nazareth, nella grande Basilica edificata intorno al luogo che la tradizione indica come teatro dell'Incarnazione di Cristo, vidi per due ore una processione di donne musulmane entrare in chiesa per rendere omaggio a Maria. E anche lì ebbi l'impressione che la mia vita, con la sua tentata profondità, si svolgesse in verità tutta sull'epidermide del mondo.
I testi letterari di solito non si scrivono perché si è capito qualcosa, ma perché non lo si è capito, nel tentativo di capirlo oppure di ammettere - dolorosamente - di non poterlo capire. Al lettore non interessa l'intelligenza, interessa un cuore che si mette a nudo.
La cosa strana dell'arte è che ci si mette a nudo mascherandosi, travestendosi. Diventando qualcos'altro (un albero, Giulio Cesare, una tragedia, un panorama cittadino ecc.) noi usciamo dalla nostra finzione, precipitiamo nella realtà. Così fanno gli artisti.
Per anni, in seguito a questi incontri fondamentali, desiderai scrivere su questo mistero del rapporto tra l'islam (soprattutto nel suo lato povero, popolare) e la madre di Gesù. Finché due grandi personaggi del teatro italiano, Ermanna Montanari e Marco Martinelli, non mi hanno lanciato la sfida: scrivila per noi. Un libro - Innamorato dell'islam, credente in Cristo di padre Paolo Dall'Oglio (ed. Jaca Book) - mi ha fatto da viatico con le sue tesi estreme, a volte persuasive ma sempre stimolanti.
Così è nata Maryam. Tre donne davanti a Maria. Ciascuna portatrice di una devastazione che ben conosciamo. La prima chiede vendetta, la seconda chiede conforto, la terza non chiede nulla ma pensare a Maria è la sola cosa che la trattiene dal diventare pazza.
Ma questi tre racconti non bastavano, la forma richiedeva la risposta di Maria, e io non la volevo fare, volevo che Maria fosse puro ascolto amoroso, pura negazione del niente, capace di cambiare la destinazione del povero grido umano, così spesso gettato nel vuoto. Mi bastava il non-vuoto di Maria. Ma Marco voleva di più: se sei un artista devi provarci, devi dare voce a quell'ascolto. Così ho cercato di compiere anche l'ultimo passo.
In un mondo tormentato dal non-ascolto e dalla più totale ignoranza, dal non volersi incontrare, dal non voler sapere se non quello che sappiamo già, in questo mondo della non-avventura obbligato a far fronte a una tragedia che non capisce - a questo si è ridotta l'Europa ma a questo si è ridotta gran parte del mondo islamico - scrivere questa pièce
teatrale ha aiutato prima di tutto me a lasciare qualcuno dei miei tanti luoghi comuni per imparare a pensare da capo quello che credevo di avere capito da tempo.Ma questo è un dovere che spetta a tutti, oggi più che mai.
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