Per tutto il primo atto della Giovanna d'Arco l'unico simbolo sacro presente in scena è un piccolo crocifisso appeso sopra il letto oversize dell'immensa stanza cui si consuma l'epopea della piccola Jeanne: è lì, quasi invisibile, sembra un ex voto nella camera di una malata terminale. È nel terzo atto che una croce, gigantesca, brandita dalla vergine-guerriera, fa il suo ingresso trionfale davanti a una Cattedrale di Reims alta otto metri, perfettamente ricostruita sull'originale nella trama e dentro il teatro.In fondo è per difendere questa croce pesantissima e ingombrante, per difendere la libertà di vivere e raccontare al pubblico di oggi una vicenda - insieme vera e leggendaria - di ieri, che La Scala, in un Occidente sotto attacco del fanatismo islamico, si è chiusa a riccio. All'inizio con timore e poi, alla fine, cancellando tutte le paure, lanciandosi in un applauso che è anche liberatorio concesso a tutto il teatro, ai cantanti, al maestro Chailly e ai due registi, coppia nell'arte e nella vita, Moshe Leiser, belga, e Patrice Caurier, francese. I quali, di fronte alle contraddizioni del personaggio storico e soprattutto a quelle di un libretto estremamente sintetico, hanno messo in scena o perlomeno hanno annunciato che avrebbero raccontato - una Giovanna più pazza che santa, più fanatica che guerriera. Pronta a votarsi a un integralismo religioso che la porta a rinunciare ogni gioia e persino alla vita. Già. Nell'opera c'è tutto, e il suo contrario. La (in)capacità della pulzella d'Orleans di vivere appieno la propria sessualità, il senso di colpa, le proibizioni della fede, i capelli tagliati, la corazza-burqua, la negazione della femminilità, i condizionamenti religiosi, la proibizioni del piacere. Difficile non pensare al fanatismo islamico. E così, ritornando a un'opera del passato che riflette sul presente dell'Europa, tra il peso della memoria e gli incubi di guerra di oggi, la Scala blinda il crocifisso e i vessilli cristiani che si agitato sul palco. Ieri la Prima della Giovanna d'Arco di Giuseppe Verdi - storia di un'eroina pronta a morire per la fede e il proprio Paese che all'epoca poteva incarnare i sentimenti antiaustriaci e oggi potrebbe anche essere letta come l'argine all'islamizzazione dell'Europa - è andata in scena difesa da 700 militari, dai blindati della polizia che circondavano il Piermarini, dei tiratori scelti sui tetti dei palazzi attorno al teatro, delle unità cinofile, dai metal detector alle entrate (mai accaduto a memoria di cronista), dagli agenti dell'antiterrorismo in smoking mimetizzati in platea, qualcosa che non era mai successo prima nella storia repubblicana. Un sistema di sicurezza discreto ma imponente. E tutto ciò per onorare la tradizione della Prima di Sant'Ambrogio (che è una tradizione della nostra civiltà) e non arrendersi ai nuovi terrorismi. Lo ha detto il premier Matteo Renzi: «Non chiudiamoci in casa: è un messaggio anche per il Giubileo. Dobbiamo avere coraggio in una stagione difficile». E la stagione è così difficile che ci voglio i cecchini per difendere dalla follia jihadista l'epopea visionaria di una «fanatica» cristiana. Perché, in scena, per scelta del duo registico, tutto avviene nella mente della piccola Jeanne, nella sua testa-stanza affollata di sogni, incubi, elmi e corazze, la spada e il cimier, la foresta, le chiamate alle armi, le preghiere Gli angeli e i demoni. Tutto è una proiezione, sul fondale della scena, delle sue pulsioni, delle sue passioni, di deliri e desideri. «Tu sei bella. Pazzerella, che fai tu?». Nella trasposizione dal Medioevo della Guerra dei Cent'anni alla Milano ottocentesca di Verdi, Giovanna più che un'amazzone della Fede appare una madamina borghese fin de siècle, sognatrice e (forse) ammalata di isteria, una madame Bovary qualsiasi. Dell'applauso finale, lungo undici minuti, la curva ascendente l'ha toccata l'ubertosa Anna Netrebko, quella discendente, non a caso, l'hanno incocciata i due registi, a detta di molti più furbi che geniali.Fra letture psicanaliste, interpretazioni storiche e esegesi religiosa, Giovanna d'Arco opera ambigua e personaggio complesso è tornata alla Scala, uscendone indenne (in tutti i sensi), dopo 150 anni.
Delle polemiche e delle paure della vigilia, restano un lenzuolo arrotolato davanti a palazzo Marino, agitato nel pomeriggio dai militanti del Centro sociale «Cantiere» sul quale era scritto «Le Pen e Giovanna d'Arco, bentornati alle guerre di religione» e una statuina della Madonna, piccola e kitsch, apparsa alla fine dell'opera sul proscenio. E lì rimasta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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