Ramaswamy, l'anti "woke"

Le battaglie combattute da pochi (di solito ricchi) come fossero preoccupazione di tutti (in genere poveri) sono molte

Ramaswamy, l'anti "woke"

Le battaglie combattute da pochi (di solito ricchi) come fossero preoccupazione di tutti (in genere poveri) sono molte. È il politicamente corretto che sta tanto a cuore alle élite, tutte Ztl e DdlZan, ma che al cittadino comune interessa ben poco. Esempi: schwa, bagni gender neutral, teorie queer, le rivendicazioni del mondo LGBTQ+ e black...

Sono temi che superano persino la contrapposizione destra/sinistra e sembrano preoccupare più gli amministratori delegati delle grandi aziende che gli stessi politici. Benvenuti nel nuovo potere economico del «capitalismo woke». Negli Stati Uniti - la Florida della Walt Disney per fare un esempio - il fenomeno è ben conosciuto; da noi meno, anche se non è raro vedere grandi marchi (della moda o dell'alimentare) che impostano campagne pubblicitarie strategicamente «orientate». Ambiente, femminismo, gender e razzismo sono ormai i criteri con cui si giudicano imprese, opere, prodotti, istituzioni...

Però ogni tanto si levano anche voci contro. Vivek Ramaswamy, 37 anni, americano di origini indiane, imprenditore nei settori sanitario e tecnologico, politicamente conservatore, da tempo critica con forza sui giornali e in televisione l'ideologia woke. Chiedendo direttamente, con «lettere aperte» ai board delle grandi aziende quotate in Borsa, di smetterla di prendere decisioni basate su questioni di razza, sesso e simili. «Le aziende devono concentrarsi esclusivamente sulla fornitura di prodotti e servizi eccellenti ai propri clienti: oltre a questo non dovrebbero perseguire altri obiettivi, né sociali né politici», ha dichiarato più volte, sulla stampa o nei suoi libri bestseller.

«Troppo preoccupati di dire e fare le cose giuste - è la lezione di Ramaswamy - le grandi aziende si sono dimenticate di fare davvero i soldi»: utilizzano il denaro dei piccoli imprenditori per promuovere obiettivi sociali che la maggior parte di quei cittadini però non condivide.

Caso esemplare, la Disney. Il colosso americano - accusa Ramaswamy - sta conducendo una crociata politica contro una legge sull'educazione sessuale e sull'identità di genere nelle scuole primarie. È giusto che le leggi siano discusse dai cittadini, è quello che deve accadere in una democrazia. «Ma quando un'impresa decide di utilizzare le proprie risorse aziendali per schierarsi nel dibattito non va bene».

Il fatto che la Disney si concentri su un'agenda politica avulsa dai suoi scopi aziendali allontana anche la maggior parte dei suoi clienti: il 60% di loro - a differenza della Disney - è infatti favorevole alla legge.

È l'America. Ma presto anche l'Italia.

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