"Davanti ai Buddha distrutti ho pianto. E poi ho scritto"

La fotoreporter di guerra racconta nel romanzo «Malalai» le donne afghane che lottano per la libertà

"Davanti ai Buddha distrutti ho pianto. E poi ho scritto"

L a protagonista del romanzo di Ortensia Visconti, Malalai (Rizzoli, pagg. 352, euro 19; in libreria da oggi), è una ragazza di diciassette anni che fugge da Kabul e arriva in Italia da un misterioso «maestro» per illuminare i punti oscuri del proprio passato (e della madre, mai conosciuta), e che porta il nome della «Giovanna d'Arco afghana»: «Malalai di Maiwand era un'eroina che, nel 1880, durante la seconda invasione inglese, aveva combattuto contro gli inglesi recitando versi ai soldati e tenendo loro alto il morale. È stata sepolta con i martiri, una cosa unica nell'Ottocento in Afghanistan, per una donna» dice l'autrice, di passaggio in una Milano deserta per il coprifuoco. Nipote di Luchino Visconti, studi di Letteratura comparata alla Sorbona e di fotogiornalismo a Londra (dove vive da nove anni), altri due romanzi alle spalle, Stregonesco (Fazi, 2004) e L'idée fixe (Editions Naïve, 2013), un racconto lungo pubblicato nell'antologia Desire: 100 of Literature's Sexiest Stories della Erotic Review («sono fra James Joyce e Anaïs Nin, una grandissima soddisfazione»), un documentario per il cinema (Fidelity, dedicato all'isola di Cuba dopo la morte del «padre» Fidel), Ortensia Visconti ha lavorato anche dieci anni come reporter di guerra.

Dove?

«In Israele, a Ramallah, poi in Algeria, poi c'è stato l'11 settembre e sono andata in Afghanistan. Quindi in Iraq e di nuovo tanto Afghanistan, Pakistan, aree tribali...».

Come ha iniziato?

«Come fotografa per il Washington Post. Il primo lavoro fu una storia che proposi sull'American Colony di Gerusalemme. Iniziai a collaborare: mi chiamavano all'improvviso, come Nikita. In Afghanistan sono andata proprio come fotografa per il Washington Post, poi ho cominciato a scrivere reportage per Il Messaggero e La Repubblica».

E si è innamorata?

«Tantissimo. Malalai è una lettera d'amore all'Afghanistan. È un'idea che mi portavo dentro da quasi vent'anni; cercavo di affrontarla ma sbagliavo, perché tentavo di superare il dolore della guerra e mi immaginavo un personaggio occidentale al centro del racconto».

Non funzionava?

«Io stessa, lì, come reporter dopo un po' mi sentivo un avvoltoio. Ho grandissimo rispetto per gli afghani e per il loro Paese».

Chi è Malalai?

«Non è un personaggio reale, anche se, quando ero in Afghanistan, ho incontrato una ragazzina, Hanifa, che mi seguiva ovunque. Malalai è un po' come il negativo fotografico della mia esperienza: ero arrivata in un Paese che non conoscevo, probabilmente ostile, dove c'erano molte difficoltà. Lei però arriva qui in Italia, da clandestina».

Come ha fatto a entrare in una mentalità e una cultura così diverse dalla nostra?

«Il primo editing del testo l'ho fatto con una scrittrice pachistana, Fatima Bhutto. Ho trascorso molto tempo con le donne afghane ma ti possono sempre sfuggire dei dettagli, piccole cose, che cosa si mangia a colazione, per dire...».

Ha incontrato delle difficoltà in Afghanistan?

«Tantissime. La cosa in comune con Malalai è che c'era molta paura, soprattutto nei giorni prima di partire, quando mi immaginavo di arrivare e mi dicevo, chissà che cosa mi faranno questi talebani; poi, una volta sul fronte, non c'è tempo per la paura, c'è solo l'azione, bisogna vivere. Però prima, eccome se hai paura».

Le donne afghane sono le protagoniste del romanzo?

«Più che le donne afghane, Malalai e sua madre, due personaggi forti, che non ti aspetti. La madre Bibi era una femminista islamica, che girava vestita come un uomo e con il cranio rasato a bordo di una motocicletta, una che viveva in orizzontale, che riceveva nel suo daybed mentre il marito cucinava».

Malalai non l'ha mai conosciuta, è morta quando lei aveva tre mesi.

«La madre Bibi è un mistero, un enigma. E lo rimane. Attraverso una ricerca, una specie di inchiesta, a poco a poco Malalai riesce a scoprire la ragione del suo esilio, che è determinato proprio dalla vita e dalla libertà di sua madre. È il passato che ritorna e si ripercuote sull'oggi».

Qual è il ruolo del «maestro»?

«Questo vecchio libertino, un artista, è un personaggio assurdo... C'è questa ragazzina che arriva all'improvviso, spuntata dal nulla e lui all'inizio cerca di proteggersi, perché è vecchio e stanco. Poi però è proprio attraverso la relazione, profonda, con lui, che Malalai compie la sua crescita, diventa sé stessa, grazie alla conoscenza del proprio passato. Sono due culture a confronto, il maestro e Malalai. È quello che mi interessa da sempre, l'incontro fra culture diverse».

Racconta la vita delle donne sotto i talebani.

«Quando sono arrivata in Afghanistan c'erano ancora i talebani. Le persone mi hanno raccontato come vivevano, e le loro prime impressioni dopo la liberazione di Kabul. Ero lì quel giorno, per me è stato molto emozionante. In Afghanistan comunque una figura come Bibi è un'eccezione: è una cultura patriarcale, e Bibi la combatte, da femminista islamica».

Che significa?

«È un femminismo che non prende spunto da modelli occidentali, bensì da una rilettura dei testi sacri in una prospettiva di genere, per reinterpretare ciò che gli uomini hanno interpretato a loro favore. È l'idea di poter combattere i valori patriarcali con la propria cultura».

Come mai i Buddha di Bamiyan, distrutti nel 2001 dai talebani, hanno un ruolo così importante nel romanzo?

«Sono una delle origini del libro. Quando sono arrivata in Afghanistan erano stati distrutti da poco. A Bamiyan ho toccato ciò che ne restava, e che i talebani definivano terra e fango: c'era ancora un'intensità magica in quel luogo e, dopo avere tanto trattenuto le emozioni al fronte, lì ho pianto, con i pezzi dei Buddha fra le mani. Queste rocce hanno fatto crollare le mie barriere, perché dicevano del disfacimento dei valori delle persone, che arriva dopo la violenza e l'intolleranza: è il limite estremo dell'errore, prendersela con i Buddha. Poi i genitori di Malalai erano archeologi, quindi la loro storia d'amore è ambientata lì».

Ha dei legami famigliari molto illustri, in qualche modo le è pesato?

«Ma no, anzi, è una gioia, una fortuna. Poi però ho fatto la mia strada, non ne ho seguita una preimposta».

Perciò nel libro ringrazia

sua madre, per la libertà che le ha lasciato?

«In realtà, perché mi ha lasciato libera di andare in zone di guerra, anche se era terrorizzata. Aveva paura, ma non me lo ha mai detto: un bellissimo gesto d'amore».

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