Cultura e Spettacoli

Debenedetti, testimone mite del '900

Figlio d'arte, adorava gli anni Trenta e ci lascia libri "fuori dal tempo"

Debenedetti, testimone mite del '900

Chissà se è un vanto o una condanna essere la sentinella del secolo. Il compito di Antonio Debenedetti, da Giacomino, almeno, cioè dal 1994, è stato quello di ricordarci che si stava meglio quando si stava peggio. Raccolse l'eredità di suo padre l'immenso Giacomo per consegnarci una specie di titanomachia del Novecento. A casa Debenedetti era consueto incontrare Bobi Bazlen; vi passò anche Palmiro Togliatti. Abitava a Roma, Antonio, nei dintorni di Fontana di Trevi, ma era nato a Torino, nel '37: qualcosa di sabaudo e di profondamente ebraico resisteva nell'intransigenza, nella fronte ampia, nel culto della memoria. Scrisse su Il Punto, sull'Avanti!, sul Corriere della sera, su l'Opinione; «ho avuto il privilegio di conoscere Moravia, Caproni, Bassani...», ripeteva, come fosse vissuto in una glittoteca, in una foresta di specchi. Amava gli anni Trenta, «un decennio straordinario, nel corso del quale, a dispetto del fascismo, si consolidano poeti come Montale e Saba e critici come Cecchi; vengono redatte le più belle terze pagine del mondo, Pirandello è ancora attivo, si costituiscono le premesse del cinema neorealista... Ci sono Savinio, Gadda, Landolfi, Bontempelli, e ancora Croce, Bo, Pancrazi...».

Non sopportava i reiterati tributi al «terribile Sessantotto, che ha destrutturato la scuola e l'università»; credeva che il 1993 fosse l'anno dell'apocalisse culturale italiana, «l'anno della morte di Fellini, l'anno, cioè, della morte dell'ultimo dei maestri. L'ultimo dei padri. Tre anni prima se n'era andato Moravia. Con loro finiva l'età dell'attesa, quando si potevano alzare gli occhi e guardare un cielo che sappiamo abitato dal vero talento e dal vero successo. Oggi nella nostra cultura sono assenti figure di quel calibro. La mia è una generazione di orfani incapaci di diventare padri». Eppure, Debenedetti non fu solo figlio, pallido erede di un'era formidabile. Scrisse libri importanti, propri, inappropriati al tempo: Monsieur Kitsch, Se la vita non è vita, Racconti naturali e straordinari, Il tempo degli angeli e degli assassini. Ottenne molti premi, dal Viareggio al Campiello; vent'anni fa fu finalista allo Strega, con Un giovedì dopo le cinque: quell'edizione andò a Domenico Starnone.

Oggi i suoi libri si trovano con fatica, ed è un peccato. L'ultimo testimone del Novecento: gli piaceva definirsi così, lo ribadiva, con aggraziata violenza. Uomo mite, Debenedetti aveva fede nell'ostinato persistere del genio, nell'esigenza dello stile che è il metro di un'etica , nell'aristocrazia della letteratura.

Ora, che i nani ballino.

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