Gli ebrei sradicati fra vecchio e nuovo mondo

Ne "Lo sposo importato" Abraham Cahan racconta la vita dall'Europa dell'Est a New York

Gli ebrei sradicati fra vecchio e nuovo mondo

Come il ramo di un albero che dà ancora frutti, ecco che lo shtetl (villaggio) abbandonato alla ricerca di una vita nuova e più sicura da tanti ebrei dell'Europa dell'Est, fiorisce di nuovo ai nostri occhi nel racconto di Abraham Cahan Lo sposo importato edito da Elliot (pagg.126, euro 14,50). Cahan, che emigrò a New York alla fine dell'800 con l'ondata di ebrei inseguiti dalle misure antiebraiche dello zar Alessandro III, può essere a buon diritto considerato il padre della letteratura che poi si sviluppa in America con i monumentali Henry Roth, Isaac Bashevis Singer, e via via produce Malamud, Saul Bellow, Philip Roth, Cynthia Ozick... e quanti altri. Cahan naturalmente ebbe una educazione religiosa nella nativa Lituania (era nato nel 1860), naturalmente vi si ribellò divenendo un insegnante e rifiutando di essere rabbino, naturalmente divenne comunista almeno per un po', naturalmente a New York fu un ribelle totale e tuttavia critico della società secolare in cui si era tuffato. Secolarizzando il sacro e ridicolizzando il divino tuttavia seguitò per tutta le vita a utilizzare il prisma dell'ebraismo come indispensabile lente di lettura della realtà del mondo nuovo.

Il suo mondo newyorkese parlava per la gran parte Yiddish, come il giornale da lui fondato, il Jewish Daily Forward, punto di riferimento di tanti immigrati. Il suo capolavoro è The rise of David Levinsky una grande storia scritta in forma di diario, dove lo shock del passaggio dallo shtetl nel mondo americano, dell'amore libero, del libero mercato, della lingua inglese diventano saga. Cahan ne Lo sposo importato costringe il lettore a sorridere per tutto il tempo della lettura, fin da quando la prima pagina ti porta da Flora, nel boudoir della viziata e sentimentale figlia del protagonista, Ariel Stroon, un immigrato ormai ricco e integrato che decide di compiere un viaggio sentimentale nella sua terra d'origine quando teme di aver perduto ogni diritto a dirsi quell'ebreo fedele che desidera restare. In memoria del suo shtetl, dei suoi genitori, della sua piccola amorosa comunità yiddish, il senso di colpa lo riporta in Europa. E alla governante che gli chiede se porterà la figlia con sé dice stizzito di no: «Perché possa ridere delle nostre usanze laggiù e perché i devoti la additino chiamandola ragazza gentile? ... Non c'era ancora quando vivevo a Pravly e lì voglio tornare a stare come a quei tempi». Stroon, all'inizio in uno stato d'estasi amniotica che solo chi ha conosciuto la gente proveniente dallo shtetl può capire, si troverà invece a lottare corpo a corpo con l'ambiente ritrovato. Quello lo disprezza per la malattia di secolarizzazione contratta negli Usa, Stroon invece ha imparato a apprezzare la pragmaticità del nuovo mondo e a usarne il denaro. Ma in contraddizione con se stesso, Stoon tenterà di tornare avendo procurato il massimo della spiritualità all'unica figlia lasciata nel boudoir a leggere Dickens, Scott e Thackeray, comperandole uno sposo di importazione che altro non è che un risplendente giovanissimo studioso-prodigio di Talmud. La vicenda si farà tanto più complessa quando il ragazzo «importato» New York percorrererà a sua volta una strada di secolarizzazione che tuttavia coincide, fortunatamente, con l'amore per e con Flora.

A sorpresa le pagine finali riescono a mettere insieme l'amore ormai impossibile dell'autore per il suo antico mondo e lo scetticismo verso l'inevitabile presente secolare. Si sorride fino alla fine per l'invenzione letteraria di Cahan, ma costa caro.

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