Nel 1945, quando Aurélien venne pubblicato, ebbe poco successo, un migliaio di copie vendute e molte critiche. Il suo autore, Louis Aragon, si era appena insediato nel ruolo che per circa un ventennio sarebbe stato il suo, Grande Inquisitore delle Lettere e insieme scrittore comunista senza se e senza ma, ovvero sdraiato sulla linea, una linea che intellettualmente non faceva prigionieri... Ciò che in quel 1945 ci si aspettava da lui era il grande romanzo della Resistenza e dell'Impegno, della Fratellanza e del Proletariato, dei Domani che cantano di una società idealmente senza classi e invece in Aurélien non c'era niente di tutto questo e addirittura il suo esatto contrario. Era una storia d'amore, ma un amore finito male, anche perché «niente assomiglia alla morte come l'amore», aveva per protagonista un eroe borghese, se non addirittura piccolo borghese, ex combattente della Grande guerra e inadatto alla vita in tempo di pace, uno che non riusciva a portare a compimento nulla e che si limitava a vivere di rendita, «pronto a scommettere contro se stesso, a sposare la certezza contraria», però pieno di quel fascino disattento e insieme rispettoso verso le donne che ne faceva un seduttore suo malgrado, naturalmente elegante, senza cioè lo sforzo per sembrare tale...
Quanto all'eroina, Berenice, con quel suo nome da tragedia di Racine che mal si adattava a una ragazza di provincia moglie di un farmacista, sedotta e insieme fulminata da Parigi, «c'è del grottesco in tutto ciò che vira al tragico», niente le si attagliava meglio che la maschera mortuaria dell'Inconnue de la Seine... Era il giovane volto di un'annegata ripescata dal fiume e portata all'obitorio che aveva intrigato il patologo di turno al punto tale da ordinare il calco di quel viso, gli occhi chiusi, l'indefinibile sorriso da Gioconda del XX secolo, eterea e però vittima del merchandising della modernità: il romanzesco Aurélien ne teneva una riproduzione appesa nel suo bilocale di scapolo all'Isle Saint-Louis, i surrealisti in carne e ossa ne avrebbero fatto un feticcio poetico, Céline l'avrebbe scelta come immagine di copertina di L'Église, la sua prima opera teatrale...
Infine, ad andare in controtendenza in quel 1945 in cui la Francia e i suoi scrittori uscivano dalla guerra, dall'occupazione nazista, dal collaborazionismo, dalla lotta armata contro l'invasore ed entravano nei processi sommari e nelle condanne esemplari, nelle liste di proscrizione e, insomma, in un dopoguerra all'insegna dei regolamenti di conti, Aurélien era il romanzo della Francia anni Venti, meglio, della Parigi anni Venti, l'ubriacatura della vittoria nella Grande guerra e della fine di un mondo, l'ansia di scrollarsi di dosso il peso e l'odore della carneficina e insieme la difficoltà a smobilitare i demi-soldes refrattari a un ritorno a casa incomprensibile dopo quattro anni di trincee, di fango, di mutilazioni e di morte, il denaro facile e la fragilità parlamentare, le donne, le feste, le avanguardie tanto compiaciute quanto rissose, in pittura come in letteratura, le albe gonfie di alcol e di sesso, la morale dei bordelli e dell'ipocrisia borghese, l'ubriacatura della velocità, lo stordimento come condizione esistenziale...
Con questo romanzo in controtendenza, Aragon riannodava i fili e in fondo si congedava dal se stesso ventenne che era stato, il reduce sentimentale e innamorato, iconoclasta e spaventato, poeta romantico, dal cuore delicato. E a suo modo, un po' edulcorando, un po' ritoccando, un po' mentendo, rendeva omaggio e insieme saldava il suo debito umano e intellettuale con l'alter ego di quella stagione così tumultuosa e così ricca di speranze, intuizioni, errori, vita vissuta e vita immaginata, il dioscuro da cui poi lo avevano diviso le scelte politico-ideologiche da un lato, l'ansia di competizione dall'altro, una sorta di complesso di superiorità sotto il profilo artistico-letterario, entrato in crisi quando quel dioscuro si era trasformato in rivale di pari, se non superiore valore. Perché poi Aurélien è in controluce il ritratto di Pierre Drieu La Rochelle, quello stesso Drieu che in quel 1945 in cui il romanzo usciva e Aragon appariva vittorioso su tutta la linea, sconfitto si toglieva la vita nella solitudine della sua casa di Parigi.
L'unicità di Aurélien, «fra ciò che ho scritto è per me un libro di predilezione», è tanto più significativa se si considera che nel giro di pochi anni, nel 1949 per la precisione, un po' su commissione e un po' come espiazione, Aragon porrà mano a Les communistes, tremila pagine, due o sei volumi a seconda dei caratteri di stampa e relative foliazioni e/o edizioni, romanzo-fiume che singolarmente si interrompe lì, proprio dove sarebbe dovuto cominciare, l'ingresso dei comunisti francesi nella lotta armata, vuoi per stanchezza creativa, vuoi per stanchezza, come dire, dialettica, la difficoltà di conciliare la realtà storica con la realtà ideologica... In un bel libro che si intitola La ferita della modernità (il Mulino), così come in Fratelli separati (Settecolori), Maurizio Serra lo ha ben spiegato e a essi rimandiamo il lettore che ne volesse sapere di più: qui basterà aggiungere che fra i tanti, troppi libri, di un autore prolifico come pochi, Les communistes è fra i più indigeribili, realismo socialista in salsa feuilleton...
Come capita agli scrittori vissuti a lungo, sopravvissuti a se stessi e imbalsamati ancora da vivi in quella sorta di museo egizio che è la critica letteraria in forma di opera omnia e note a piè di pagina, dove filologicamente si spiega ogni testo, ma si dimentica sempre il contesto, ovvero il clima di un'epoca, le amicizie e le inimicizie, i sentimenti e le ambizioni, le psicologie con il loro corteo di miserie, grandezze e fraintendimenti, Aragon, scomparso ormai da quasi mezzo secolo, resta ancora oggi oggetto di feticistica ammirazione a cui però non corrisponde più un interesse da semplice lettore, interesse che invece non è mai venuto meno nei confronti del suo fratello separato, per usare la bella immagine di Maurizio Serra, quel Drieu la cui decadente sensibilità antimoderna, con i suoi sensi di colpa e accettazione delle proprie responsabilità, con il suo groviglio di dubbi, frustrazioni e voglia di assoluto, continua a essere un termometro della nostra condizione umana. Per quanto concerne il primo, è un peccato, perché si tratta comunque di uno scrittore di prim'ordine, sperimentatore e insieme capace di riallacciarsi alla grande tradizione romantico-realista, Balzac, Stendhal... Basterà, sotto questo aspetto, ricordare La settimana santa, uscito alla fine degli anni Cinquanta e dove il romanzo storico d'antan è come vivificato e sottratto al pericolo di una pura e semplice riproposizione, provocatoria e insieme straordinaria prova d'autore.
Resta da chiedersi come e perché per tradurre Aurélien in italiano si sia dovuto aspettare più di settant'anni, come e perché, insomma, il miglior Aragon sia stato così a lungo negato al lettore di casa nostra, laddove in Francia, una volta superato lo sconcerto critico iniziale, figlio di quei motivi già accennati, il libro non è mai uscito di scena, sempre ristampato, nel tempo considerato una delle sue prove d'autore più riuscite, se non il suo libro migliore. È difficile dare una risposta, se non legandola anche qui a dei riflessi ideologici postumi che facevano velo alla sua felicità espressiva, nonché a una pietas in grado di riscattare e nobilitare vite bruciate e passioni mai spente.
Come che sia, finalmente il pubblico italiano ha a disposizione l'Aragon che ancora e sempre vale la pena di leggere, ironico, delicato, umano, sorretto dalla grazia dell'ispirazione, innamorato della storia e dei suoi protagonisti, poetico cronista degli anni folli, fedele, per l'unica volta senza sì e senza ma, alle amicizie, e non alle fedi politiche.
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