Cultura e Spettacoli

Epica, politica e rivolta nella Reggio del 1970

"Salutiamo, amico" di Turano rievoca l'epoca delle proteste per il cambio del capoluogo

Epica, politica e rivolta nella Reggio del 1970

Ci sono momenti in cui il recensore di un libro si caccia in un angolo senza via d'uscita. Così è successo a me quando ho affrontato Salutiamo, amico di Gianfrancesco Turano (Giunti, pagg. 492, euro 18). È un libro che rende la vita difficile a chi deve scriverne se, come nel mio caso, ha vissuto in una lontana e tumultuosa epoca della sua vita gli stessi eventi storici che narra il libro.

È una storia ed è la storia sullo scenario dei «fatti di Reggio Calabria» del 1970 quando scoppiò una rivoluzione innescata dall'assegnazione del capoluogo regionale a Catanzaro per una spartizione fra politici calabresi, come il socialista Giacomo Mancini e il democristiano Riccardo Misasi, che avevano progettato un nuova regione moderna, con una vera autostrada, un giornale stampato sul posto, una Università, un aeroporto intercontinentale, un oggetto mitico e irrealizzabile come un centro siderurgico che avrebbe dovuto produrre calabresi in tuta blu come i Cipputi (personaggio di Altan) della Fiat e tradurre in modernità un territorio sventurato e paradisiaco con i simboli ormai datati del progresso.

Le opere furono poi fatte l'autostrada finita soltanto dopo cinquant'anni, l'ateneo con modernissime maisonette per studenti fuorisede nel campus di Arcavacata, e uno squadrato porto di mare rubato a una piana su cui crescevano inutili e magnifici ulivi secolari. In quell'operazione meridionalista e illuministica, furono decisi e assegnati nuovi ruoli alle città: fu così che Reggio Calabria, la perla dello Stretto, si trovò espropriata dal titolo di capoluogo che fu assegnato per alchimie politiche alla periferica Catanzaro. Fu così che da un giorno all'altro esplose una rivolta indistricabile in cui passato e presente entrarono in un conflitto paradossale per cui la destra estrema diventò sinistra e viceversa, le donne corsero sulle barricate coi maschi e noi giornalisti dell'Italia di sopra viaggiavamo tra i fuochi, le esplosioni, i morti e i feriti, privi di parametri e di strumenti intellettuali per decifrare e raccontare in totale onestà di che cosa fossimo testimoni.

A conti fatti, mentre quegli eventi accadevano, l'autore di Salutiamo, amico era un bambino di otto anni, più o meno coetaneo dei miei figli che negli anni successivi mi avrebbero spesso seguito in Calabria quando ero caporedattore del Giornale di Calabria. Tempi, dunque, per me eroici e terribili, esaltanti e deprimenti, spesso incomprensibili come resta secondo me magnifica e incomprensibile quella regione così diversa nel suo tessuto un po' greco e un po' saraceno, contadino e aristocratico, con accenti che cambiano a seconda delle influenze della pronuncia della consonante t che può essere theta o tau o quella siciliana dei greci antichi di cui conserva ancora dei dialetti che non discendono dal greco Basileo o dei fuggiaschi di Costantinopoli, ma dal greco omerico. Oggi, al posto degli altissimi ulivi secolari del marchese Zorzi sulla piana di Gioia Tauro, c'è un porto moderno che è anche un centro dello spaccio della droga via container per servire il Quinto centro siderurgico che poi non si fece mai perché non era più tempo di siderurgia, guarda l'Ilva di Taranto e gli stabilimenti chimici della Sir dell'imprenditore Rovelli, amico e sostenitore del leader socialista calabrese Giacomo Mancini, per il quale aprì il primo quotidiano stampato nella regione in uno stabilimento nordico di plexigas, metallo e moquette sintetica al chilometro 273 dell'autostrada, di cui io fui redattore capo fin quando Eugenio Scalfari fondò Repubblica.

I fatti narrati nel libro avvennero però un po' prima, nel 1970, quando Gianfrancesco Turano aveva otto anni ed io trenta. Questo groviglio di ricordi personali molto intensi evocati fra tante storie di amori e odio e morti e vivi di 490 pagine con tantissimi pregi, mi ha tenuto in scacco per due mesi. Salutiamo, amico è un libro d'amore, politica, iniziazione, giudizi e pregiudizi, memorie di digestioni ideologiche e grandiosi esperimenti linguistici che guidano non solo alla cadenza fonetica, ma alla cadenza dei pensieri, dei sentimenti, degli inasprimenti e della condizione umana in una terra in cui il carattere omerico è in perenne conflitto col moderno. Turano gioca con una certa anima saracena usando la q al posto del suono k che in italiano si rende con ch, alla maniera delle traslitterazioni dall'arabo. È un libro che ho ammirato e con cui ho litigato come si fa con i compagni di viaggio, sicché non riuscendo più a liberarmi dell'articolo che state leggendo, ho dovuto fare una scelta per decidere quale privilegiare fra i ricorrenti piani di scrittura di Turano (che è un giornalista dell'Espresso e autore esperto e di successo) e ho dovuto restringere la materia alla storia, perché c'ero e ricordo: ecco il marchese Zorzi, fascistissimo a cavallo con sahariana, Ciccio Franco (il rivoltoso di estrema destra, poi senatore del Msi), la sinistra giornalistica sull'orlo di crisi di nervi. «Va bene, questa è una rivolta fascista. Ma il popolo è con loro. E se sbagliassero i partiti?». Mi sono imbattuto, leggendo il libro di Turano, di fronte a una lapide: è l'elenco di tutti i giornalisti (per lo più nordisti) che scesero a Reggio e scrissero, scrivemmo, come forsennati: da Giorgio Bocca, a Giampaolo Pansa, da Adele Cambria a tanti altri che sono tutti assolutamente morti. Così ho scoperto di essere io l'unico rimasto vivo di quel corpo di spedizione e questa banale considerazione, o certificazione di residuale esistenza in vita di un gruppo di testimoni estinti, mi ha pugnalato al cuore. Mi torna in mente il sofisticato Alfonso Madeo del Corriere della Sera famoso per aver messo a rimborso sotto la voce «fiori per la moglie del prefetto» le prestazioni di una signorina stanziale nell'Hotel Excelsior, con la nota «l'uomo non è di legno», ma io mi trovavo nella situazione peggiore perché ero l'inviato poverissimo del quotidiano socialista Avanti! di cui si bruciavano copie sui roghi accanto ai fantocci di Giacomo Mancini impiccato insieme a Misasi. Una sera chiesi un passaggio a un automobilista che mi accolse e poi mi chiese: «Ma voi lo conoscete questo grandissimo figlio di puttana di Guzzanti, che scrive sull'Avanti?». Giurai di non conoscermi.

Una notte fui costretto a rifugiarmi in un albergo di Messina per sfuggire ai più esaltati, ma non furono queste le cose più sensazionali per me, in quell'epoca in cui terminava una fase della nostra storia. Turano racconta moltissime storie viste, udite, ricreate, vere o letterarie e comunque storie che si incastrano in un cambiamento rivoluzionario che purtroppo non ha poi dato frutti magnifici, come le recenti questioni calabresi hanno mostrato, con mio sommo dolore perché pur non avendo alcuna origine in quelle terre, posso dire di amarle in un perenne stato di inquietudine. Una espressione ormai coperta dall'oblio va spiegata ed è anche in copertina, «Boiachimolla»: era la password di quei moti e i «boia chi molla» erano liquidati alla spiccia come fascisti il che non era del tutto vero. Ma nessuno credo sia in grado di dire quanto ci fosse di fascista o di comunista o di socialista in quel teatro sassoso e insanguinato, limpido e torbido che è la Calabria.

Posso però testimoniare che Salutiamo, amico, benché ardisca mescolare il genere del saggio, del poema omerico moderno, del diario politico e di tanti altri diari umani compresi quelli palpitanti di iniziazione sessuale, è una testimonianza italiana di un tempo e di un luogo di cui l'Italia intera ha perso la memoria, che qui è invece catapultata con tutti i suoi odori e temperamenti aspri, sulle pagine di un ambizioso libro da leggere come è stato scritto, con animo epico.

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