«Ho l'epidermide del cuore troppo sottile... Ciò che potrebbe essere mi guasta ciò che è, ciò che dovrebbe essere mi rode di tristezza. Perciò la realtà, il presente, la necessità, l'irreparabile mi ripugnano, o anche mi spaventano. Ho troppa immaginazione, coscienza e penetrazione, e non abbastanza carattere. Solo la vita teorica ha sufficiente elasticità, immensità, riparabilità; la vita pratica mi fa arretrare».
Questo autoritratto di Henri-Frédéric Amiel (1821 - 1881, nato e morto negli stessi anni di Dostoevskij, e dunque, in qualche modo, dell'idiota principe Mykin, del colpevole e castigato Raskol'nikov...) può valere per molte grandi nullità della storia della letteratura. Per l'Oblomov di Goncarov, per il trio sveviano Nitti-Brentani-Cosini, per il Malte Laurids Brigge di Rilke. O per la scombiccherata squadra di giovani narrati dall'olandese Jan Hendrik Frederik Grönloh, alias Nescio (1882 - 1961), all'inizio del Novecento e riuniti nel 2015 da Iperborea in Storie di Amsterdam. Sicuramente calza a pennello a Frits van Egters che, proprio come l'«io» del fluviale Diario intimo dello svizzero Amiel, è un autoritratto. Il pittore-scrittore in questione è un altro olandese, Gerard Reve (1923 - 2006), tutt'altro che lineare e allineato come Nescio ai dettami borghesi nella vita reale, ma dell'altro grande ammiratore. «Nescio scrisse, dopo decenni di pomposa assurdità ai quali in Olanda eravamo abituati, come una persona normale» è il lusinghiero giudizio di Reve. Scrivere come una persona normale, secondo Reve significa non nascondere nulla, riflettersi nello specchio delle parole senza censure, remore, cavilli morali.
Si specchia spesso, non metaforicamente, il ventitreenne Frits. Tira in dentro la pancia, esamina il colorito della pelle, sorveglia l'attaccatura dei capelli perché preferirebbe morire, piuttosto che diventare calvo. Siamo nella Amsterdam del 1946, ovviamente quella del ventitreenne Gerard Reve. Mamma e papà di Frits sono in salotto o in cucina, come sempre lei sferruzza e come sempre lui legge un libro. È la fine di dicembre, fa un freddo cane, ma Frits si affretta a uscire. Per andare incontro a Le sere (Iperborea, pagg. 318, euro 18, traduzione e postfazione di Fulvio Ferrari, prima edizione italiana). Ma non pensate a un damerino rimasto sul groppone dei genitori, né a un esteta vagamente proustiano e mondano. Frits è, normalmente, «un piccolo nevrotico», e soltanto passeggiando da solo lungo i canali o tra la folla nelle piazze riesce a mitigare le sue paure. Cammina un po' e poi va a trovare il fratello, sposato con prole, o un amico. Un bicchiere di qualcosa, un paio di sigarette, quattro chiacchiere. Aneddoti, soprattutto, barzellette grottesche e ciniche intorno alle malattie e alla morte. E Frits lascia cadere, espressamente o tra sé e sé, le sue verità: «la pietà è nociva»; «vado matto per i funerali»; le donne «sono esseri difettosi, degni di compassione»; «le persone che piangono facilmente hanno di solito un carattere superficiale e crudele»; «la maggior parte della gente non pensa mai a niente»; «i vecchi sono una sciagura. Appena cominciano a far fatica a camminare, a sporcarsi, a lamentarsi o a sbrodolarsi a tavola... via! Un colpo dietro le orecchie con un bastone bello pesante e poi nel pozzo della calce»; «se hai un'intelligenza acuta, capace di riconoscere la causa delle cose, allora diventa un inferno». Un'amica gli regala un coniglio di pezza e lui che fa? Prima lo bacia e lo accarezza, poi se lo infila nelle mutande e lo morde e lo sevizia. Ma sa che Dio lo vede, perché «Dio vede tutti quanti noi», «Dio è l'inizio e la fine di tutte le cose».
Frits è disturbato e disturbante, invadente e invasato, scontroso e scomodo. Eppure, non si riesce a volergli male, come a uno talmente fuori di testa che ti fa pensare che quella testa, una volta rimessa in sesto, abbia molto da dare. In una lettera a Reve, dopo lo scandalo (e il successo) suscitato dal suo romanzo d'esordio, lo scrittore Simon Vestdijk dice: «Le sere è un estremo, è una terra ai confini del mondo. Se ci si spinge al di là si esce dalla letteratura e si entra nella religione». Ferrari la considera giustamente un'affermazione «profetica». Poiché dopo Le sere, uscito nel '47, Reve diventa un autore a suo modo religioso. Anche se continua a somigliare a Frits: disturbante, invasato, scomodo. Da Reve origina il «revismo», una sorta di religione laica. Talmente laica da tirarsi addosso nel '66 l'accusa di blasfemia quando in Nader tot U (Più vicino a Te) l'autore, nel frattempo divenuto cattolico, descrive il fantasioso accoppiamento con Dio che ha assunto l'aspetto di un asino. La religione di confessione revista è infatti basata sul sesso, in quanto «Dio soffre più di tutte le creature che hanno vissuto, vivono o vivranno, e deve venir consolato da noi». Come? Eroticamente. Nel pantheon di Reve il posto più elevato spetta alla Vergine in quanto Madre di Dio. Quindi abbiamo Cristo. Poi la morte, «il tema fondamentale di ogni arte». Infine il libro, cioè l'opera dell'uomo che con devozione deve essere continuamente perfezionata.
Omosessualità e sadismo, di cui indoviniamo qualche debole traccia già nelle Sere, diventano il lessico famigliare di Reve, divenuto mentore e matrona in una corte frequentata da ragazzini.
Ma siamo nell'Olanda degli anni Sessanta e Settanta, giardino delle delizie dove trova cittadinanza ogni genere e gender di stranezza. Un posto dove forse persino Frits van Egters si sarebbe sentito un po' più a suo agio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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