«Più snella, rinnovata e propositiva». La descrive così Alberto Barbera la 69esima edizione della Mostra di Venezia, prima dell'èra post-Müller. Al suo secondo mandato, dopo i quattro anni di direzione artistica tra il 1998 e il 2002, ha assunto il nuovo incarico con piglio decisionista per dare alla Mostra nuovi impulsi. Il cartellone è composto solo da una sessantina di film, diciotto in concorso. Poi le novità, «dall'attenzione al mercato ai cambiamenti nella linea editoriale». Infine, la propositività con la nascita di Biennale college cinema, «un laboratorio permanente di regia che vuole togliere alla Mostra il semplice ruolo di vetrina, trasformandola in stimolo per i talenti emergenti in una dimensione più internazionale».
L'anno scorso in quasi la metà dei film si parlava di immigrazione. Quest'anno c'è un argomento dominante?
«Il tema centrale è la crisi contemporanea, declinata in forme diverse. È una crisi che partendo dall'economia investe modelli sociali e di comportamento. In alcune opere si affrontano i fondamentalismi ideologici e religiosi. Infine, c'è un gruppo di film che analizza i rischi d'invasività di internet nelle nostre vite. In un solo caso emergono gli effetti positivi delle nuove tecnologie».
Meno film italiani e più americani, nonostante la concorrenza di Roma e Toronto.
«La concorrenza del festival di Roma non è esistita, anche perché si è allontanato nel calendario. Non ho trovato un solo produttore o regista che mi abbia detto di essere incerto se andare a Roma o venire a Venezia. Ho visionato tutte le pellicole che ho chiesto di vedere. La concorrenza con Toronto invece si è fatta sentire. La maggior parte dei film di Venezia sono anche lì. Essere al Lido dà prestigio. Andare a Toronto serve come test sul pubblico. E agli americani costa un decimo».
Ritiene che con Roma la sfida sia vinta o meglio attendere la programmazione di Müller?
«Assolutamente: Roma è come se ricominciasse da zero. Marco non ha ancora annunciato il suo cartellone. Solo a quel punto confronteremo i due festival che appaiono sempre più diversi».
Secondo una ricerca dello Iulm i festival di cinema in Italia sono 130 mentre le presenze in sala crollano.
«È un fenomeno che dura da un po' di tempo. Nei festival si vive il senso di partecipazione a un evento. Si è più disponibili alla fruizione di opere che altrove non si vedrebbero... Questa esperienza di comunicazione nelle sale non c'è più, sono assediate da troppe piattaforme. Basta pensare a che cosa avviene con il download illegale. Sembra una battaglia persa, ma mi auguro non sia così, come insegnano le esperienze di altri Paesi del Nord Europa, la Francia o la Spagna».
Che spazi avrà il mercato alla prossima Mostra?
«Intanto c'è, per la prima volta. E come tutte le cose che nascono piccole ha l'ambizione di crescere. È un'idea irrinunciabile, avvicinare il cinema d'autore all'industria offrendo anche ai cineasti più radicali opportunità di incontro e distribuzione che altrimenti non avrebbero. Creare un ponte tra questi due mondi è una missione della Mostra».
C'è un film che non è riuscito a portare al Lido?
«Quello di Ben Affleck che ricostruisce il sequestro degli ostaggi americani nell'ambasciata canadese a Teheran nell'82. Il fatto che il Canada avesse un ruolo centrale anche nella trama ha convinto la Warner a privilegiare Toronto».
Soddisfatto della partecipazione italiana?
«I sedici italiani presenti sono un campione nutrito e variegato, anche se inferiore nel numero rispetto agli anni passati. La trasformazione di Controcampo italiano in una riserva indiana non mi piaceva. Nessuno, maestri compresi, deve sentirsi automaticamente invitato a Venezia. Quella realizzata mi sembra una selezione rappresentativa del fermento del nostro cinema».
Ogni edizione ha il film-scandalo. Stavolta tocca a quello di Bellocchio sul caso Englaro?
«Bella addormentata è destinato a suscitare polemiche. La contrapposizione dei partiti pro o contro l'eutanasia, tema qui trattato con equilibrio e sensibilità, purtroppo è già iniziata.
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