Paradossale. È l'aggettivo più usato, il vocabolo con cui monsignor Rino Fisichella, uno dei volti più noti della Chiesa, cerca di afferrare i ricordi, le sensazioni, le emozioni che hanno accompagnato la sua amicizia con Oriana Fallaci. «Oriana era una persona paradossale - racconta il presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione -, capace di grandi slanci e poi di improvvise chiusure, generosa fino a darti tutto e poi taccagna, pronta a negare la mancia al taxista».
Quando vi siete incontrati?
«Nel 2005. Casualmente. Mi scrisse dopo aver letto una mia intervista al Corriere della sera in cui parlavo di lei».
Che cosa cercava la grande scrittrice?
«Sapeva che ero il rettore dell'Università Lateranense e voleva approfondire questo rapporto. Poi, naturalmente voleva conoscere, attraverso di me, Benedetto XVI, da pochi mesi pontefice».
E Lei?
«Io sono prima di tutto un sacerdote e un vescovo. Misi a disposizione della sua curiosità e della sua intelligenza, inesauribili, la mia fede e la mia esperienza cristiana. Si capiva che era alla ricerca, seguiva una sua strada travagliata, era dilaniata, ma voleva dialogare con gli uomini della Chiesa».
I vostri incontri?
«Un po' dappertutto. A New York, dove lei abitava, e poi a Roma. Venne nella capitale un paio di volte e io mi occupai della sua ospitalità. Inviava lettere, biglietti, telefonava. Tenga presente che parliamo di un periodo intenso ma breve, forse un anno e mezzo fino alla sua morte nel 2006».
C'era un filo conduttore nelle vostre conversazioni?
«È difficile imprigionare dentro le parole un rapporto fatto di mille sfaccettature, sfumature, sottolineature. Certo, lei era inquieta e ostinatamente si poneva le domande fondamentali sulla vita e la morte».
Cercava un aiuto per andare più in là?
«Sì. Anche se era una persona difficile, dalla personalità fortissima, combattuta fra lo scetticismo della ragione, intesa in senso illuministico, e le ragioni del cuore che sente una realtà più grande, il mistero che è intorno a noi, ma non riesce ad abbracciarla compiutamente. Da questo punto di vista credo di averla sconvolta e di aver messo in crisi alcuni suoi pregiudizi».
Quali?
«Lei prediligeva gli scrittori del Settecento e Voltaire su tutti. Penso non si aspettasse di trovare un prete, come il sottoscritto, che aveva letto a sua volta il suo maestro e ne padroneggiava i testi. Il suo anticlericalismo fu spiazzato dal vedere che l'Enciclopedia era anche nella mia biblioteca».
Fu Lei ad accompagnarla da Papa Ratzinger.
«Sì, a Castel Gandolfo. Lei ammirava moltissimo Benedetto, lo riteneva una delle poche personalità all'altezza sulla scena di un'Europa addormentata, imbambolata, in letargo. Oriana amava Ratzinger che, senza tanti giri di parole, ripeteva all'Europa: svegliati, ritrova le tue radici, riscopri la tua identità. Fu in questo senso che arrivò a dire di non potersi non ritenere culturalmente cristiana».
Ma come andò quel faccia a faccia?
«C'erano solo loro due, io rimasi fuori. Credo che Oriana abbia espresso al Papa tutta la sua stima e immagino che Benedetto l'abbia ascoltata con attenzione. So che lei gli regalo il suo libro Lettera a un bambino mai nato e lui le donò il suo testo sull'Europa».
Forse, oggi la Fallaci non andrebbe altrettanto d'accordo con Papa Francesco.
«Non avrebbe certo il minimo dubbio nel manifestare, come era nel suo carattere, tutto il disappunto su alcuni temi incandescenti».
Per esempio sull'Islam?
«Sul punto era categorica: l'Islam è il male, il nemico, la negazione della nostra civiltà. Purtroppo non distingueva fra moderati ed estremisti, non si sforzava di analizzare le diverse posizioni».
Forse anche perché era stata toccata dalla tragedia dell'11 settembre?
«Non dimentichiamo che abitava a Manhattan, fra la Sessantaduesima e la Sessantatreesima strada, vicina a Ground Zero. Le finestre di casa sua davano su un cortile interno, m certo Oriana ha percepito in diretta quell'immane carneficina».
Intanto la malattia, «l' Alieno» come lo chiamava lei con la A maiuscola, avanzava.
«E questo rendeva ancora più acute le sue riflessioni. Ricordo che con un certo disagio io, non certo autore di romanzi di fama mondiale ma solo di saggi teologici, le consegnai un mio libretto il cui sottotitolo recitava: Abbandonarsi al mistero. Pensavo che l'avrebbe gentilmente infilato in un cassetto, invece dopo la sua morte il nipote Edoardo me lo ha restituito: era zeppo di sottolineature, di punti di domanda dove evidentemente non condivideva, di frasi messe in evidenza con i post it. Ci aveva lavorato sopra con accanimento, con passione, senza misure, come nel suo stile. Perché Oriana non si accontentava, voleva andare fino in fondo».
Così fino alla fine?
«L'ho accudita a New York per una settimana. Era ormai una donna debolissima, costretta a trascorrere tutto il suo tempo a letto. Ma continuava a interrogarsi e interrogarmi, non dava nulla per scontato, non esplicitava, non definiva, in un certo senso giocava con l'intelligenza altrui. In quei giorni estremi l'Oriana complessa e paradossale che avevo conosciuto lasciò il posto a una bambina».
Una bambina?
«Sì. La Fallaci era tornata bambina. Fragile. E con l'unico grande desidero di sentirsi voluta bene».
Lei organizzò anche il suo rientro in Italia.
«Voleva morire a Firenze in un luogo da cui potesse vedere il Cupolone di Brunelleschi. E così fu. Avevamo parlato anche del funerale, ma alla fine scelse, mi disse per coerenza, una cerimonia laica».
L'ultimo incontro?
«Andai a salutarla il giorno prima che se ne andasse. Non c'era più bisogno di parole.
Lei in precedenza si era raccomandata: Se è vero quello che dici, allora stringimi la mano. Ho mantenuto la promessa. E sempre seguendo le sue indicazioni, le campane del Duomo, così familiari, l'hanno accompagnata e quasi abbracciata con il loro suono mentre usciva dall'ospedale».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.