La paziente è tedesca, anche se vive a Londra. Lo psicoanalista è ebreo. Il fulcro è un sogno, «essere» Hitler ed essere con Hitler, e una serie di fantasie sessuali connesse alle evocazioni del «piccolo A». La narrazione della seduta, come hanno scritto alcuni critici americani, è «à la Bernhard»: l'eccesso è sempre in agguato, il limite sta in ogni momento, ad ogni affermazione un poco più provocatoria, un poco più spinta, sempre sul punto di essere oltrepassato. E quando avviene, quando il salto nel buio del profondamente conscio eppure superficialmente nascosto è stato fatto, si conquista nuova energia retorica per andare ancora oltre.
È il modo di procedere del romanzo breve Un cazzo ebreo di Katharina Volckmer, uscito in questi giorni per La nave di Teseo (traduzione di Chiara Spaziani, pagg. 112, euro 16), un modo di procedere che ha una sua motivazione esplicita e una più radicale e protetta, come del resto ci ha raccontato l'autrice stessa: «L'idea per questo romanzo è nata mano a mano, grazie ad un certo numero di racconti che ho scritto nel tempo, per sperimentare. Per me tutto è partito dalla voce della protagonista: quando l'ho sentita parlare per la prima volta nella mia testa, il libro si è praticamente scritto da solo. Il suo sogno di essere Hitler così come le sue fantasie sessuali con lui sono il suo modo di provocare le persone intorno a lei, in questo caso il dottor Seligman e prima di lui il suo terapista Jason. Ma per me come scrittrice sono anche il sistema per prendermi gioco dell'ossessione collettiva che la gente continua a provare per Hitler. E della maniera in cui quelle stesse persone usano Hitler come scusa per i crimini che hanno commesso: potete ancora facilmente trovare documentari della televisione tedesca, ad esempio, in cui la gente afferma cose come E poi Hitler invase la Polonia, invece di dire che l'invasione è avvenuta ad opera dei tedeschi stessi e che un uomo da solo non può invadere una nazione».
Fin qui tutto chiaro. C'è da dire tuttavia che la Volckmer (classe 1987, tedesca, vive a Londra e sembra aver molto in comune con la voce narrante di Un cazzo ebreo) non si fa davvero alcuno scrupolo di usare proprio tutte le immagini che le vengono alla mente per rappresentare questo paradosso: sesso e perversione sono in ogni riga, uniti a una stratificata sprezzatura che a tratti si può scambiare per magnetico snobismo - per il genere umano inteso in senso ampio. Si capisce come mai questo esordio, libro dell'anno 2020 per il Times Literary Supplement, sia in corso di traduzione in 12 Paesi, sebbene venga preso con le pinze a partire dal titolo: al momento solo La nave di Teseo ha infatti optato per il titolo voluto dall'autrice, mentre la maggioranza degli editori ha glissato verso il più soft L'appuntamento.
«Hitler mi faceva dire il mio nome è Sarah prima di punirmi con il suo possente frustino»; «Dovrei rallegrarmi forse che non mi abbia fatto ricoverare spedendomi in qualche manicomio per essermi inventata dei soprannomi da dare all'uccello di Hitler»; «Mi immaginavo perfino delle brevi pubblicità televisive, con un bambolotto snodato di Hitler in sella a uno di quei cavalli brillantinati, che strappa una fanciulla tedesca dalle mani di un qualche lascivo ebreo e galoppa lontano, verso il tramonto: la razza era sana e salva»: sono solo alcune delle immagini riferibili e riferite al dittatore, che si trasforma nel sogno della protagonista in un uomo da violare e da cui farsi violare, ma anche in un filtro con cui guardare alla propria storia personale e al proprio tempo storico, il nostro: «Non sento di appartenere ad alcuna generazione», ci spiega la Volckmer. «Penso che possiamo parlare solo per noi stessi e sono abbastanza sicura che un sacco di gente in Germania non sarà d'accordo con il mio libro: verrà pubblicato la prossima estate, vedremo. Ma la protagonista, sebbene non la si possa definire una sociopatica, è influenzata sia dalla contemporaneità che dalla storia: soffre per il fatto di essere tedesca e per il senso di colpa che ne deriva, ma affronta anche le battaglie necessarie per vivere in una città come Londra in questa epoca particolare. Lotta per essere felice e riconciliarsi con il suo retaggio culturale, ma anche con il proprio corpo, corpo nel quale non vuole più continuare a vivere. Alcuni trovano volgare che abbia messo insieme Olocausto e sesso nella stessa narrativa. Ma la combinazione di vergogna del corpo e linguaggio, storia e geografia in cui siamo nati era la miscela che volevo esplorare».
Naturalmente arrivati in fondo al volumetto è inevitabile ripensare all'appartenenza tedesca e alle eredità della storia che pesano sulle spalle di ormai tre generazioni che non le hanno vissute personalmente, ma a vincere è quella voce che la Volckmer ha inventato e che ci porta a spasso tra fantasie senz'altro estreme ma anche catartiche, che danno modo alla protagonista di rievocare oltre a Hitler, anche il proprio padre, assente ingiustificato, e la propria madre, inquietante dittatrice in questa vicenda, da cui non si sente libera mai, nemmeno quando fa sesso, nemmeno quando ha un orgasmo. Se su questo la Volckmer cerca una riconciliazione attraverso il corpo e il riprendersene piena proprietà, diritti e favori, sulla Storia la questione rimane invece aperta: «Si tratta senza dubbio di un libro su che cosa significhi essere tedeschi e sul modo in cui i tedeschi abbiano fallito nel trattare con il proprio passato.
Su come ignorino il neofascismo contemporaneo e su come non sia affatto sicuro indossare una kippah in Germania. E più approfondisci e più ti rendi conto di questa continuità e della mancanza di volontà di riconoscere appieno la colpa. Colpa e vergogna che si trasmettono, da una generazione all'altra».
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