Dopo la digressione ilare de "Gli amanti passeggeri", in cui la vena provocatoria di Almodovar si era lasciata andare a un'allegrezza sterile, il grande talento del regista torna a farsi sentire con "Julieta", il suo nuovo film. Presentato in concorso al Festival di Cannes di quest'anno e tratto da tre racconti brevi del libro Runway della scrittrice canadese Alice Munro, "Julieta" è un melodramma. Oltre al genere, anche i temi affrontati sono quelli cari ad Almodovar: si parla di universo femminile e del modo in cui le donne si relazionano a grandi eventi della vita come l'amore, la maternità, la perdita. Ma in quest'opera ci sono scorci nuovi dell'altra metà del cielo, adombrati da nubi cariche di dolore, che l'autore non aveva ancora esplorato. E' un film sul senso di colpa, sull'espiazione, sui rapporti interrotti e sulla sofferenza sedimentata.
Julieta (rispettivamente Emma Suàrez e Adriana Ugarte nella versione adulta e ragazza, entrambe superbe) è una donna che vive a Madrid e sta per trasferirsi in Portogallo con il compagno, quando un incontro casuale disseppellisce ricordi in grado di rivoluzionarle l'esistenza. Il fatto è che s'imbatte in informazioni sulla figlia di cui non ha notizie da tanti anni e non riesce più ad andare avanti: rinuncia a seguire l'uomo che ama e torna a stare nel quartiere, addirittura nello stesso condominio, in cui abitava quando faceva la mamma. Per mettere ordine nella sua vita inizia a scrivere una lunga lettera alla figlia in cui ripercorre tutto quello che le ha viste coinvolte fino alla loro separazione.
L'espediente narrativo della missiva che non ha la possibilità di raggiungere il destinatario, oltre che essere funzionale, ha una sua verità profonda: la psicologia parla da almeno venti anni dell'abitudine prettamente femminile di scrivere lettere che poi non vengono spedite (Darian Leader ha dedicato un bel libro all'argomento). Al centro del film, dicevamo, il senso di colpa: Almodovar indaga il sottile potere invalidante e divorante dei pesi sul cuore, mostrando come alcuni mutino in rancore verso terzi. Il regista sottolinea come tra i concetti di espiazione e di vendetta, soprattutto quella autolesionista, il confine sia labile quando non si è lucidi emotivamente, avvolti magari in una solitudine e un silenzio che sono l'humus prediletto di certi cortocircuiti della mente. È una pellicola carica di presenze invisibili: quella del destino, personaggio dal peso mortale e della cui onnipresenza ci si accorge solo quando si fa sentire e poi alcune importanti assenze, volontarie o meno, che si impongono come presenze assordanti nei pensieri.
Almodovar, dopo alcune sperimentazioni, sembra approdare a una nuova fase, meno travolgente e irruente delle precedenti, in cui rivaluta un'asciuttezza e una misura che finora gli erano sconosciute, dal momento che mai aveva lavorato tanto di sottrazione come in questo caso. Del resto a essere nuova è la tipologia di donna che accosta e rende protagonista: una creatura dalla vitalità meno urlata, il cui essere anticonvenzionale non va mai oltre una tinta di capelli ardita o la subitanea fiducia in un amore appena incontrato.
La Julieta del film è la rappresentante di un femminile che si fa giaciglio, ora accogliendo dentro di sé poesia e sentimento, ora nostalgia e sofferenza. La sua caratteristica, ad ogni modo, è custodire ogni emozione nel liquido amniotico della passività. Ma è anche una donna tenace, che non molla gli affetti così come i dolori, incapace di lasciarli andare perché è in quelli che si identifica e in nient'altro. La vita le fa dono di una figlia che è il suo sole per poi toglierglielo e farla precipitare di nuovo in quella nebbia che avvolge chi non ha saputo accendersi una luce dentro.
Ebbene, il film non ha soltanto il nome della protagonista come titolo, ma fa sue le caratteristiche fondamentali di questa donna.L'inedita compostezza giova ad Almodovar: lungi dal sembrare una resa alla convenzionalità, il suo ventesimo lungometraggio appare come l'indizio di una maturità e di una consapevolezza nuove.
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