I cortigiani irrequieti del Giappone medievale, sempre in cerca di vantaggi personali, venivano chiamati «cacciatori nel buio». Lawrence Osborne racconta il destino di chi insegue una felicità sfuggente in un romanzo che da loro prende il nome, Cacciatori nel buio appunto: storia di Robert, insegnante inglese di 28 anni in vacanza in Cambogia, che vince duemila dollari al casinò e decide di non tornare più nel suo villaggio nel Sussex. E sarà travolto da una serie di eventi che non riesce a dominare, e neanche a comprendere, in una terra ancora ferita dalla rivoluzione dei Khmer rossi. Il romanzo (Adelphi, pagg. 278, euro 19; sarà presentato dall'autore a Pordenonelegge domenica 17, ore 17, Convento di San Francesco) è scritto nello stile che ha reso famoso l'inglese Osborne, che la critica anglosassone ama definire il nuovo Graham Greene: elegante, preciso, ricco di dettagli, con un senso di decadenza - un po' alla Somerset Maugham - e che sembra coinvolgere il lettore nella spirale, lenta, del destino. «È esattamente quello a cui miravo. Maugham è un autore molto sottovalutato. Il velo dipinto è un libro bellissimo» dice Osborne da Bangkok, dove vive da qualche anno, dopo gli studi a Cambridge e Harvard, i reportage da giornalista e molti giri per il mondo. Definisce il suo libro un «noir meditativo».
Da dove viene quel senso forte di passività nel romanzo?
«Beh, credo che le persone siano in gran parte passive nella vita reale; o meglio, che non abbiano il controllo dei loro stessi destini, per dirlo in modo più generoso. Passiva è una parola che sento spesso da parte degli stranieri per descrivere la cultura thailandese. Quello che in realtà intendono è fatalistico, e il fatalismo è qualcosa che volevo esplorare in questo romanzo. Una trama fatalistica».
Robert non ha principi o ambizioni: un simbolo dei giovani europei?
«I millennial? Forse. Il sogno a occhi aperti dell'Occidente sta giungendo alla fine, credo... Ma questi vagabondi senza un sentiero, come li chiamo io, sono sempre esistiti».
Un elemento chiave è il ruolo della fortuna e del caso nelle nostre vite.
«La fortuna è una parte del pensiero magico che non muore mai. Chi non ci crede, nel profondo? Credo corrisponda all'idea primordiale che gli esseri umani non siano gli agenti più potenti dietro lo svolgersi degli eventi, e che forze misteriose e enigmatiche governino il mondo».
Perciò scrive di azzardo?
«Solo due volte. Però sì, mi affascina. Las Vegas e Macao sono i formicai del pensiero magico».
E i fantasmi, gli spiriti, le nuvole «da cani e avvoltoi», che i Khmer leggono come segni premonitori?
«Sì, laggiù c'è questa componente sottile, ambigua. Ma dopo tutto, la nostra stessa cultura europea non era così diversa, non molto tempo fa. Mia madre, irlandese, lasciava un piattino di latte per gli elfi ogni notte».
Perché vive a Bangkok?
«Ho vissuto qui negli anni '90, poi mi sono trasferito nel 2012. È adatta a me. Mi ha dato il tempo e lo spazio per cambiare completamente la direzione della mia scrittura».
Ha vissuto un po' ovunque: Parigi, Italia, Marocco, New York, California, Messico, Istanbul. Anche lei un rifiuto verso l'Inghilterra, come il protagonista?
«No, nessun rigetto. È stata solo una mia scelta. Probabilmente sarei diventato un serial killer se fossi stato costretto a vivere in Inghilterra tutto questo tempo. Non è adatta a me. Ma non sento nessuna avversione, anzi. Ho fatto analizzare il mio Dna qualche tempo fa e ho scoperto che sono quasi completamente vichingo. I britannici sono al 40 per cento vichinghi, e questo spiega molto».
Robert la dipinge come un Paese ormai vuoto, dopo che non è più «il vertice della libertà». È così?
«Non credo sia vuota, ma che la stiano svuotando in qualche modo. Di sicuro non è più il vertice della libertà: ci sono più telecamere a circuito chiuso che in tutto il resto del mondo. È uno stato di sorveglianza, dove il linguaggio ha codici molto rigidi. Con tutti i suoi problemi, l'Italia mi sembra più libera. Anche se l'Inghilterra in cui sono cresciuto non è di gran lunga quella di oggi».
Le più grandi ossessioni degli occidentali?
«Credo la morte e le tasse. Come ci si aspetta: voglio dire, io sono ossessionato da entrambe».
Ha abitato in una fattoria polacca al confine russo. Così ha sperimentato lo scontro di culture per la prima volta?
«In un certo senso sì. La mia moglie di allora era polacca e abbiamo trascorso lì un periodo nel 1983. Era un posto molto strano: lavoravamo in una fattoria di mirtilli, che produceva vodka, coi tank sovietici al di là dei campi. Sentivi la presenza della Guerra molto intensamente. La vicinanza del Grande nemico. Piuttosto elettrizzante».
Robert si inventa una nuova identità, che ricorda in parte la sua. Come il nonno col busto di Lenin in casa...
«In parte. Ma non ho mai finto un'identità. Tranne per trucco, una volta: ho scritto un pezzo per Playboy dalle Filippine e ho dato una mazzetta a un funzionario di Manila per dichiararmi morto, con tanto di certificato. È stato sorprendentemente facile. Ce l'ho ancora appeso sulla mia scrivania. Causa della morte: tubercolosi. Firma di un parente: zia Jasmine. Sono piuttosto creativi in materia».
A Bangkok sarà lontano dalla vita letteraria.
«C'è qualcosa di peggio della vita letteraria? Potrei rimanere a Bangkok solo per starne lontano. Le feste letterarie? Da uccidersi. I premi? Una barzelletta».
Quali autori l'hanno influenzata di più?
«In inglese direi Paul Bowles, Daphne du Maurier, Jean Rhys, Patricia Highsmith, Penelope Mortimer. Graham Greene ovviamente, ed Evelyn Waugh. E poi amo Simenon e Tanizaki».
Fra il suo primo e il suo secondo romanzo sono passati 28 anni. Come mai?
«È una storia lunga. Diciamo che non me la sentivo, e non riuscivo a scrivere qualcosa che mi sembrasse soddisfacente. Il minimo che tu possa fare per i tuoi lettori a corto di tempo è esercitare un po' di controllo qualità. Anche se sono 28 anni».
Ha avuto una vita un po' straordinaria.
«Non l'ho mai vista come tale. Alla fine, quello che mi sono goduto davvero è stato bere i miei vini italiani preferiti, nei luoghi in cui sono prodotti. Che borghese...».
Nel libro scrive che tra «il samaritano e il criminale» che arrivano dall'Occidente c'è poca differenza. Il declino dell'Europa è definitivo?
«Forse. Ma il declino e l'ascesa non sono sempre connessi in modo inestricabile? Certo le classi medie europee vivono in una bolla, una zona crepuscolare di autostima e autoillusione. Gli anni futuri non saranno teneri con loro».
È vero che sta scrivendo il nuovo episodio di Philip Marlowe?
«Il libro è stato già consegnato. È ambientato in Messico».
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