In Francia si può parlare di tutto. In Italia?

In Francia si può parlare di tutto. In Italia?

Entrando nel grande dramma di queste elezioni Europee il primo pensiero che nasce è che poco è stato fatto, finora, per fare l'Europa. I segni sono molteplici: dall'influenza sempre maggiore che hanno le lobbies (soprattutto economiche) rispetto a quella che dovrebbe essere anzitutto una compagine definita culturalmente - eredità greco-romana, cristianesimo, illuminismo ecc. - all'obbligo di definire al plurale, e non al singolare, le forze che entrano a farne parte: non esiste nessun sovranismo ma tanti diversi sovranismi, così come non esiste nessun europeismo, ma solo un gran numero di sue versioni, spesso lontanissime una dall'altra. Sono un europeista convinto ma anche un convinto francofilo. Non siamo molti in Italia. Tra noi e i francesi ci sono, lo sanno tutti, molti punti di attrito, le cui radici sprofondano nei secoli. Non amo tutto della Francia, una cosa però mi colpisce sempre: la natura del suo dibattito culturale. Non dico che gli intellettuali francesi siano meglio dei nostri, non m'importa questo. Dico che la Francia si concepisce innanzitutto come una realtà culturale, che per antica tradizione essere francesi viene prima dell'essere di destra o di sinistra, mentre l'Italia, che avrebbe i titoli culturali per essere anche qualcosa più della Francia (con tutto il rispetto), non si riconosce in questa immagine. Tanto che, se dici «io amo l'Italia» rischi di sentirti dire che sei un sovranista, o che sei di Casa Pound. Si fa per scherzare, certo. Però è un fatto che uomini come Finkielkraut, Houellebecq, Zemmour e perfino - sia pure in misura minore - Renaud Camus (uomo peraltro di immensa cultura, fondatore di un partito di estrema destra), che in Italia farebbero parte della schiera degli Impresentabili o quasi, in Francia sono al centro del dibattito, hanno a disposizione giornali, microfoni, editori, discutono alla pari con i loro avversari. Ricordo, per inciso, che Finkielkraut è figlio di scampati alla shoah, e che fu allievo (come Camus) di Roland Barthes, divinità della gauche fino al giorno in cui, dinanzi alla morte della persona che più amava, dichiarò che di essere moderno non gl'importava nulla. Tanto che un altro suo grande allievo, Antoine Compagnon, lo inserì nel suo memorabile libro Les Antimodernes. Da noi questo non succede. La ragione secondo me non è politica ma culturale e storica. C'è una guerra civile che non sembra aver fine, e che rende difficile pronunciare in pace e serenità la parola «Italia»: una parola che dovrebbe renderci orgogliosi e generosi con tutti, perché l'Italia è uno dei dono più straordinari che Dio, la natura e la storia abbiano fatto a tutta l'umanità. Io non sono un complottista e non credo nella teoria della grande sostituzione, però penso che se ne possa parlare, come di tutto il resto. Ma c'è una guerra sotterranea che non si spegne, che nasce con l'unità d'Italia, e che conduce ad atteggiamenti intolleranti e fascisti (ricordiamo che il fascismo nasce di sinistra, come ben mostrò Augusto del Noce). C'è un muro che attraversa il cuore dell'Italia, e che bisognerà abbattere prima o poi. Un'ultima notazione. La regola dell'io con quelli non ci parlo vale soprattutto in ambito culturale. L'informazione va a nozze con queste cose, tutti hanno accesso ai microfoni dei tg, ma i templi della cultura restano inviolabili, è proprio lì che cominciano le censure, i divieti, quando si dovrebbe avere il coraggio di accettare il confronto sulle idee con chiunque, quali che siano le idee. Questa è la lezione francese che apprezzo e un po' invidio. Allora si vedrebbe chi è tollerante e chi non lo è. Giovanni Falcone lo diceva a proposito della Sicilia e della mafia, ma il discorso vale per tutti noi: «Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così.

Solo che quando si tratta di rimboccarsi le maniche e cominciare a cambiare (ossia, per esempio, di rinunciare a qualche rendita di posizione, n.d.r.), vi è un prezzo da pagare. Ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare».

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