L'Urss è stata un gigantesco paradosso. Marx aveva sempre pensato che il comunismo avrebbe preso piede a partire da nazioni a capitalismo avanzato, come la Gran Bretagna, non certo da un Paese essenzialmente rurale.
Insomma, la svolta verso i soviet della Russia zarista resta un fenomeno di difficile spiegazione. Ecco perché per capire le rivoluzioni del 1917 (quella liberal-socialista e quella bolscevica) bisogna guardare agli anni precedenti. È quello che fa lo storico Andrea Graziosi nel saggio che da oggi è in allegato con il Giornale (al prezzo di 11,90 euro oltre al costo del quotidiano): L'Urss di Lenin e Stalin 1914-1939. Graziosi, uno dei massimi esperti italiani di vicende russe (è fellow all'Harvard Ukrainian Research Institute e del Davis Center for Russian Studies dell'Università di Harvard) esamina nel dettaglio la complessa stratificazione economica e sociale che ha favorito la presa del potere dei comunisti russi. La Russia degli Zar era una gigantesca nazione a più velocità. Esisteva un mondo contadino la cui evoluzione era lentissima. Nelle comunità agricole caratterizzate da aziende-famiglia fortemente patriarcali (dvor) viveva il 90 per cento dei sudditi dello Zar. La proprietà della terra era molto spesso collettiva e basata su una rotazione degli appezzamenti. Gli zar l'avevano favorita per motivi fiscali: l'intera comunità rispondeva in solido della tassazione. Ovviamente il contraltare di questo collettivismo è che le innovazioni agricole erano quasi impossibili. E che le comunità inchiodavano i propri membri alla terra per non perdere fondamentali braccia e contribuenti fiscali.
Ovviamente le città, a partire da San Pietroburgo, andavano a tutt'altra velocità. Lì gli Zar avevano favorito l'innovazione sin dai tempi di Pietro il Grande e la nobiltà veniva spinta a partecipare attivamente all'amministrazione imperiale. Questo sistema a due velocità ovviamente non poteva funzionare, era come se la società dell'impero si stesse tendendo verso direzioni opposte, come un elastico. A questo va aggiunto che l'Impero era composto da un coacervo di popolazioni diverse. Non che gli zar fossero rimasti passivi di fronte a questa situazione. Ma le riforme tentate a più riprese non ottennero gli effetti sperati. Anzi. Quelle terre strappate al sistema collettivo per introdurle in una più dinamica economia di mercato finirono nelle mani di un numero ristretto di proprietari. Spesso tutt'altro che innovatori. In queste condizioni la Guerra russo-giapponese del 1905 fu una mazzata. La prima guerra mondiale, un colpo insostenibile. In questo clima Lenin ebbe l'abilità politica di saldare le istanze di un gruppo di rivoluzionari di professione a quelle di una popolazione contadina che guardava all'indietro, a una medievale ed irrealistica idea di egualitarismo agrario.
Abbastanza per vincere la guerra civile contro i bianchi (nella pratica nel 1920, in maniera definitiva nel 1922), ma non abbastanza per gestire la crisi seguente. L'economia era crollata a picco. I problemi nazionali ancora tutti sul tappeto. Il divario tra città e campagna ancora lì, solo che ormai le città erano spopolate e devastate. La soluzione tentata da Lenin e compagni si articolò, per usare le parole di Graziosi, nella «combinazione tra entusiasmo-egualitarismo e coercizione-violenza, con il peso della seconda coppia in costante aumento». Il risultato? Un sistema tutto «tributi e fucilazioni». Sopra questa truce violenza un proliferare di teorie, più o meno utopiche, su come regolare l'economia senza la moneta. Vennero sfornati, per esempio, milioni di questionari per valutare il lavoro e spediti nelle fabbriche. Non li compilava nessuno, nonostante le minacce di punizioni severissime. Gli operai non sapevano leggere. Alla fine il risultato fu che i funzionari locali si trasformarono in tanti piccoli tirannici autocrati. Nel periodo 1922-1925 la situazione migliorò lievemente, ma solo perché Lenin venne a compromessi con quel po' di mercato che si era spontaneamente creato. Piccola proprietà contadina libera, grande industria statale.
Ma la morte di Lenin (1924) e l'ascesa di Stalin cambiarono le cose. Stalin voleva far fare un balzo al Paese e una volta liquidata l'opposizione interna calò con la mano pesante. Si passò dall'assenteismo legalizzato nelle aziende di Stato ad un folle super lavoro: nel 1927-28 gli incidenti in fabbrica furono 220 ogni mille lavoratori.
Se l'orario di lavoro giornaliero scendeva a sette ore per motivi di propaganda, la produzione doveva restare inalterata e doveva essere portata avanti per tre turni giornalieri. Ma fu solo l'inizio di una lunga barbarie travestita da virtù. Dal 1929 iniziarono le «purghe» e perdere un braccio in un tornio o morire di fame in un campo pieno di spighe divennero il minore dei mali.
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