Cultura e Spettacoli

Fucili, tabacco e vendetta. Il Veneto è come il West

Nel nuovo capitolo dell'epopea scritta da Righetto torna la lotta dei contrabbandieri per sopravvivere

Fucili, tabacco e vendetta. Il Veneto è come il West

Fabrizio Ottaviani

Aprendo il secondo volume della «trilogia della frontiera» di Matteo Righetto la prima parte, L'anima della frontiera, è uscita l'anno scorso, la terza non si farà attendere ritroviamo il roccioso Augusto De Boer dove l'avevamo lasciato, e cioè a Nevada, il paese dal nome di fantasia che si erge fra l'altopiano di Asiago e la valle della Brenta. Ha smesso di contrabbandare il tabacco italiano con l'Impero austro-ungarico, anche perché ci stava rimettendo le penne. Adesso si limita a venderne un pochino giù a valle, e per il resto, a farsi spremere fino al midollo dalla Regia Tabacchi, l'azienda di Stato vanto dei Savoia che monopolizza la coltivazione della pianta con la nicotina, sfruttando i contadini come lui. È molto invecchiato, Augusto, ma come la cocciuta poiana della canzone di Jannacci non ha nessuna intenzione di andarsene, dovesse rimanerci solo lui, a Nevada, mentre ogni anno migliaia di veneti affamati salgono sul treno diretto a Genova e lì si imbarcano, per vedere se dall'altro lato dell'Atlantico le cose magari non vadano un po' meglio. Anche Jole, la figlia, è decisa a tener duro. Se poi la fame dovesse bussare alla porta, ci sono sempre i lingotti accumulati grazie al grande contrabbando del passato, da rivendere ai calderai per comprare un po' di farina. Prospettive di emancipazione non ve ne sono: siamo nel 1898, in piena crisi di fine secolo, e il Governo ha l'abitudine di prendere a cannonate chi prova a lamentarsi.

Si potrebbe continuare così per chissà quanto tempo, passando le giornate curvi nelle masiere, se un dì due mascalzoni che portano in faccia lo stigma della malvagità, l'irsuto Strim e lo sfregiato Ruggero, non approfittassero della malattia del figlio di Augusto, Sergio, per commettere una strage e rubare i lingotti. La Weltanschauung della Jole non contempla né lo Stato, né la Chiesa: appassionata ribelle dominata dal senso della giustizia, la ragazza seppellisce i genitori dietro casa, si prepara una tisana di marijuana già raccomandata dalla madre Agnese come «l'unico rimedio, quando si è in preda dell'agitazione» (del resto, «se sulla riva destra della Brenta cresceva bene il tabacco, quella sinistra era perfetta per la canapa») per poi scovare il fucile delle avventure con il padre «mi ricordo bene come si fa cantare!» e mettersi alle calcagna degli assassini.

Il western alpino di Righetto, più vicino allo stile di Mauro Corona che a quello di Rigoni Stern, moltiplica le analogie fra la frontiera nostrana e quella americana: Nevada a parte, giustizia privata a parte, sul massiccio del Grappa si svolge un rush che è quasi una corsa all'oro: cercatori venuti dalla Valbelluna portano con sé «bottiglie di aceto, seghe, carte e lane di vetro per smerigliare e lucidare le gemme». Ma c'è frontiera e frontiera. La frontiera di Righetto non è la macchina meritocratica messa in moto dai pionieri che facendo a pezzi il privilegio stabilisce l'essenza e la differenza degli Stati Uniti d'America. È l'espediente attuato da un singolo per non morire di fame. Non ha in vista l'allargamento di uno Stato a spese di popoli tribali: è, piuttosto, un mezzo per vendicarsi dello Stato (feroce) al quale si appartiene. Per cui non ha una connotazione positiva e Jole lo fa capire senza usare giri di parole: «Lo sai che non mi piacciono le frontiere. Mi piacciono gli orizzonti». Semmai, la vera frontiera è «quella maledetta, sporca, eterna e diabolica frontiera tra poveri cristi e potenti, tra umili e prevaricatori». Ben presto, anche il concetto di patria subisce una metamorfosi: «patria e frontiera sono le due facce della stessa medaglia. I miei veri compatrioti sono quelli che vivono la mia stessa disgrazia...» Non sembra di ascoltare Lenin, in una seduta della Seconda internazionale?

Per fortuna, ad un certo punto del romanzo compare una grande frase: «Speranza non significa avere la certezza che le cose andranno bene, ma essere convinti che abbiano senso». È la chiave per accedere alle pagine migliori de L'ultima patria (Mondadori, 225 pagg., 18 euro): per esempio alla ricostruzione degli interni loschi e luridi dell'abitazione della Santa, la strega che dovrebbe guarire Sergio morso da un ragno velenoso; o alla descrizione della capanna di una vecchia coppia di coniugi che vivono ad Almeda, in alta quota, come si vivrebbe nel Neolitico. Alle supertizioni ataviche («gli storni annunciano inverni freddi e lunghi, poca neve e tanto gelo...») e alle pratiche scomparse, come quella di raccogliere il tannino scuro che si forma sulle galle delle querce per venderlo come inchiostro.

In tutti i passi in cui si prova ad andare oltre il lessico della perduta cultura agricolo-pastorale e si tenta di evocarne la grammatica e la sintassi, magari per scoprire che quello che sembrava chiaro non lo è per nulla e che il muro che ci separa da quella civiltà, ormai, è quasi insuperabile.

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