La gelida manina (morta) di Caruso e altre storie Gli «scarti» libreschi diventano piccole gemme

Lo studioso-bibliofilo fa parlare foglietti, lettere, dediche e varie carte dimenticate

Luigi Mascheroni

Che cos'è esattamente il nuovo libro di Giuseppe Marcenaro scrittore, giornalista, critico e bibliofilo titanico dal titolo così misterioso: Scarti (il Saggiatore)? Il sottotitolo, così curioso, «Appunti, lettere, scartafacci. Viaggio nel regno dimenticato della letteratura», aiuta appena. Per fortuna c'è la copertina. Dove spicca un'opera, The Hotel Eden, anno 1945, di Joseph Cornell (1903-72), artista statunitense sui generis, maestro riservato dell'assemblaggio (e anche del cinema sperimentale e del found footage), il quale realizzava piccole scatole di legno chiuse da un vetro, le shadow boxes, riempite con reliquie domestiche (ne aveva una mastodontica collezione): figurine, ampolle, giocattoli, piume, palline, elastici, cartoline, stoffe, bottoni... Rimasugli, preziosi e unici, che sanno generare creazioni impreviste.

Ecco, il libro di Giuseppe Marcenaro è la stessa cosa, trasportata in letteratura. L'autore, accumulatore compulsivo (ma con gusto) di libri e lacerti cartacei, ha estratto dalla sua magmatica biblioteca alcuni pezzi rari, in grado ognuno di raccontare una storia dimenticata, e li ha fatti parlare, capitoletto per capitoletto, in preciso ordine cronologico. Dai Souvenirs dell'intraprendente uomo d'affari, in piena Rivoluzione francese, Pierre-Francois Palloy, fino all'ironica dedica antiletteraria con cui Carlo Bo, firmando un suo libro di 1600 pagine, offriva con affetto «questo mattone stira-calzoni». Non capite? Ve lo spiego meglio. Marcenaro tira fuori dai suoi scaffali vecchi scontrini, cartoline, cambiali, dediche, biglietti da visita, fotografie in bianco e nero, foglietti sparsi, locandine, addirittura bustine del tè tutte carte passate dalle mani e dalle penne di celebri e meno celebri personaggi e che lui ha salvato dall'oblio - e ci narra, una-due paginette per ogni pezzo, un aneddoto letterario, una piega della Storia, un pettegolezzo da salotto colto, inedite cronachette...

Esempi! Esempi!

Quanti ne volete. Eccone uno. Stendhal era un grafomane che usava qualsiasi spazio bianco per scrivere, qualsiasi cosa gli venisse in mente in quel momento, anche un aforisma, un'illuminazione. Un giorno, su di un libro di Montesquieu che aveva sotto mano, proprio sul taglio, lo scrittore francese appuntò, in carattere maiuscolo, la prima regola della vita: «ÈTRE SOI MÊME». E in quel messaggio - per leggere il quale, contro tutte le leggi della lettura, occorre che il libro sia chiuso - affidò ai posteri tutto se stesso.

E ecco un altro «scarto». È il tassello biografico che esce da un'informazione riservata in cui il rettore dell'Università di Bologna metteva sull'avviso il prefetto di Genova in merito al fatto che presto - siamo attorno al 1905 - «lo studente Dino Campana» avrebbe cercato di stabilirsi da quelle parti, come morbo infetto. «È uomo che facilmente si abbandona alle violenze ... fu ricoverato nel manicomio provinciale di Imola per toglierlo dai gravi pericoli del suo stato impulsivamente irritabile». Il più grave dei quali, sappiamo, sarebbe stato quello di scrivere i Canti Orfici. E cambiare la nostra poesia.

Dài, l'ultimo. È l'aneddoto raccontato da un carteggio autografo, inedito, dell'inverno 1906, tra Enrico Caruso e l'amico napoletano Giovanni Mascia e che testimonia di una vecchia storia sconosciuta, in bilico tra un atto d'opera e gli atti osceni. Caruso, il giorno prima del debutto di Bohème al Metropolitan di New York, fu arrestato per aver toccato il culo (scusate...) a una pudica signora, a Central Park. Finì dentro. Fu tirato fuori da un amico americano che pagò la cauzione.

E Caruso, nonostante il clamore dei giornali, poté godersi - cantando, pensa un po', «Che gelida manina...» - il meritato trionfo a teatro. Poi, però, andò a processo e fu condannato a un'ammenda di 10 dollari. Gli italiani... Devono sempre farsi riconoscere.

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