Il genio che lasciò opere imperfette perché voleva misurarsi con Dio

Capolavori ed esperimenti restano quasi tutti incompiuti: l'insoddisfazione era la sua spinta

Il genio che lasciò opere imperfette perché voleva misurarsi con Dio

In quanti ci applicheremo a scrivere di Leonardo in pompa (funebre), per celebrare il cinquecentesimo anno della sua morte? E in quanti saremo costretti a ripetere le stesse cose sul genio universale di un uomo che da toscano si è fatto lombardo, trovando a Milano la sua gloria, alla corte di Ludovico il Moro? E proprio questo aspetto anomalo di artista che diventa celebre fuori di Firenze quando Firenze era il centro del mondo, la capitale del Rinascimento, mi incuriosisce, mi fa rimpiangere che qui a parlarne (chissà se lo avrà fatto nella sua sterminata produzione letteraria e critica) non ci sia Giovanni Testori, che all'arte lombarda dedicò intelligenza e passione. A partire da un grande creato padano di Leonardo: Gaudenzio Ferrari. In realtà i grandi padani Leonardeschi furono due, ma il secondo era emiliano: Correggio. Gaudenzio e Correggio. Nessun artista, neanche Michelangelo, Raffaello, ha avuto due allievi così grandi, anzi, più grandi di lui. Perché Leonardo era un pittore non convinto, decisamente insufficiente per quantità di produzione e qualità. Grandissimo disegnatore, a dipingere doveva annoiarsi e molte cose non portò a compimento, e altre dipinse con tecniche sbagliate. Come il Cenacolo di Santa Maria delle Grazie. Ne ha perfetta consapevolezza Giorgio Vasari che nella prima edizione delle sue Vite, edita nel 1550, a trent'anni dalla morte di Leonardo, ma con una ancora vivida conoscenza del suo temperamento e della sua leggenda (già in vita: e non dimentichiamo che quando Leonardo morì Vasari aveva 8 anni; poteva perfino averlo visto): «Trovasi che Lionardo per l'intelligenza dell'arte cominciò molte cose e nessuna mai ne finì, parendoli che la mano aggiungete non potesse alla perfezione de l'arte ne le cose, che egli si immaginava, con ciò sia che si formava nella idea alcune difficultà tanto maravigliose, che con le mani, ancora che elle fussero eccellentissime, non si sarebbero espresse mai».

Dunque, così come la sua opera ci dice, Leonardo era un creatore di prototipi, per i quali era fondamentale la sua straordinaria felicità di disegnatore («nondimeno benché egli a si varie cose attendesse, non lasciò mai il disegnare e il fare di rilievo, come cose che gli andavano a fantasia più d'alcun'altra...»). Sperimentatore formidabile, uomo furioso, filosofo della natura, nella quale cerca il mistero di Dio. Prima di Spinoza: deus sive natura («e massime nella erudizione e principii delle lettere, nelle quali egli avrebbe fatto profitto grande, se egli non fusse stato tanto vario et instabile. Perciocchè egli si mise a imparare molte cose e, cominciate, poi le abbandonava»).

Questi principi, questa continua insoddisfazione, sono nella sua natura. Ogni opera, nella quale pure metteva impegno, poteva avere inizio e mai fine. Non era il prodotto di una committenza ma di un laboratorio di sperimentazione. Impensabile per esempio che non conoscesse la tecnica dell'affresco, intensivamente praticata a Firenze e da lui studiata non solo nella bottega del Verrocchio ma nel dialogo con i grandi pittori fiorentini, e con la lezione viva di Cennino Cennini che aveva addirittura scritto un trattato sulla pittura. Ma la più grande impresa di Leonardo, l'unica per impegno e dimensioni che l'avesse posto nel rapporto tradizionale con il committente (lui che, primo artista moderno, dipingeva per sé), non era per lui un lavoro ma un campo di sperimentazione, filosofica, teologica, religiosa e anche tecnica. Immagino i dialoghi con l'ingenuo e preparato pittore che gli stava di fronte, al Cenacolo. Abile, esperto per formazione familiare in una famiglia di pittori, Giovanni Donato Montorfano, che, quando Leonardo entra nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, sta dipingendo la sua monumentale Crocifissione. Siamo nel 1495, e Donato conosce come nessuno il «buon fresco». Sa cioè che, per consolidata tradizione e per miglior durata, i colori si distendono sull'intonaco fresco con velocità, perché possano amalgamarsi con la malta, in una consistente penetrazione. Tant'è che, sulla parete, il pittore procede per giornate. A conti fatti, per gli affreschi di quelle dimensioni, con un lavoro costante e continuo, si possono calcolare al massimo 60 giorni. Il muro comanda. Leonardo non ne voleva sentir parlare: la testa del pittore comanda e, come egli sosteneva, «la pittura è cosa mentale». Occorre dunque poter dipingere senza ansia e senza fretta, meditando, correggendo, variando, e per questo l'unica soluzione è dipingere su un muro secco, contro tradizione e logica. Montorfano non ci voleva credere; ma la prova è nei fatti. E Leonardo a cantiere aperto lavorò per quasi 5 anni con frenesia (in taluni momenti) e con lunghissime pause di riflessione, andando e venendo a suo piacimento, con una festa grande per la città e la leggenda del suo Cenacolo, con relative visite, anche mentre era in preparazione. Con lo stupore e l'ammirazione dei suoi compagni. Ce ne parla Matteo Maria Bandello che, a 12 anni andando a trovare lo zio Vincenzo, priore di Santa Maria delle Grazie, vide Leonardo in azione nel 1497. Ne riportò un'impressione e una emozione straordinaria. Bandello ci dice dei gentiluomini che «nel refettorio cheti se ne stavano a contemplare il miracoloso e famosissimo cenacolo di Christo con i suoi Discepoli ,che allora l'eccellente pittore Leonardo Vinci fiorentino dipingeva: il quale haveva molto caro che ciascuno, veggendo le sue pitture, liberamente dicesse sovra quelle il suo parere». Cantiere aperto dunque, anche ai ragazzini, cui era già affidato, come agli allievi di Leonardo, di salvare il mondo. E Leonardo godeva della fiducia assoluta di Ludovico il Moro che «talmente si innamorò delle sue virtù,che era cosa incredibile». Ed eccolo, allora, appena entrato nel refettorio vedere il Montorfano affaticarsi nella sua impresa secondo i tradizionali schemi quattrocenteschi: la città di Gerusalemme sul fondo e il popolo sotto le croci. Scenografica composizione, ispirata al Foppa da Butinone e Zenale. Montorfano era più giovane di Leonardo, ma risulta malato e non più in grado di lavorare già nel 1497. Il confronto è difficile, e di certo Montorfano non gode dell'amicizia del Duca. A testimonianza dell'impari confronto con il pittore fiorentino, un lettera del 1497 scritta da Ludovico il Moro è stata interpretata come un invito a demolire l'opera dell'artista, finita da appena due anni, per sostituirla con un altro dipinto fatto realizzare a Da Vinci. In realtà è piuttosto improbabile che il duca potesse far demolire un grande affresco già pagato da altri e appena terminato, tuttavia avendo lasciato il Montorfano due zone vuote nella parte inferiore della composizione, con tracciate solo sommariamente le figure del duca Ludovico con il figlio Cesare a sinistra, e di Beatrice d'Este con il figlio Massimiliano a destra. È possibile che le istruzioni si riferissero al rifacimento di tali ritratti. Essi sono infatti eseguiti con mano leggera e beffarda sul muro secco, da Leonardo. Dovettero apparire mirabili, mortificare un pittore malato costretto a subire l'intervento di Leonardo che gli spiegava la bontà della pittura a secco; e, infatti, sono spariti come, d'altra parte, il Cenacolo di Leonardo che, nella sostanza pittorica, non esiste, è un meraviglioso disegno di straordinario dinamismo, in cui si vedono fantasmi muoversi reagendo alla provocazione di Cristo («Lionardo si immaginò e riuscigli di esprimere quel sospetto che era entrato negli apostoli di voler sapere chi tradiva il loro maestro... per il che si vede nel viso di tutti loro l'amore, la paura e lo sdegno, ovvero il dolore di non poter intendere lo animo di Cristo»). Tutto questo oggi si intravede, dopo il lungo restauro di Pinin Brambilla Barcilon, in una sapiente ricucitura. Abbiamo di fronte l'equivalente di una sindone, un'ombra, rispetto a corpo del dipinto che fu, certamente magnifico prima di iniziare a decomporsi. Scomparse le vesti, i cibi sulla tavola, le decorazioni sulla tovaglia, i variopinti arazzi fiamminghi lungo le pareti della sala, rimangono sfocati e rarefatti i volti. Leonardo lo dipinse deliberatamente male, sperimentando tecniche e colori che non potevano competere con l'antica e sapiente arte dell'affresco. La leggenda ha fatto il resto, ma Leonardo non voleva limiti, di tempo e di fantasia; voleva intervenire in qualunque momento e non nei tempi dovuti delle giornate. Il testimone diretto, il giovane Bandello, ce lo dice,tra stupore e paradosso, con un racconto impressionistico che pare più di un documentario, e in tempo reale. Bandello è lì, per giorni, e lo vede, lo osserva, lo studia, colmo di (in)descrivibile ammirazione: «Soleva anco spesso, te io più volte l'ho veduto è considerato, andare la matina a buon hora a montar su l ponte, perché il cenacolo è alquanto da terrà alto: soleva (dico) dal nascente sole sino all'imbrunita sera non levarsi ma il pennello di mano, ma scordato si il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi state dui, tre e quattro dì, che non v'averebbe messo mano, che tuttavia dimorava talhora una o due al giorno e solamente contemplava, considerava et esaminando tra sé, le figure giudicava. L'ho anche veduto (secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava) partirsi da mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da Corte vecchia ove quel stupendo Cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Gratie: et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o due pennellate dar ad una di quelle figure e di subito partirsene ed andare altrove».

Per l'imprevisto sforzo, Leonardo decise di lasciare Milano, ma non i suoi allievi che portò con sé; e di tornare a Firenze, assumendo il lieve impegno della tavola per la chiesa della Santissima Annunziata, dove rubò l'incarico a Filippino Lippi. Originale e carico di gloria, fornì ai committenti, i frati dei Servi, soltanto un disegno. Ma era il mirabile Cartone di Sant'anna. D'altra parte aveva mille curiosità, e il suo pensiero costante era misurarsi con il creatore,al limite dell'eresia: «e tanti furono i suoi capricci che, filosofando delle cose naturali, attese a intendere le proprietà delle erbe, continuando e osservando il moto del cielo, il corso della Luna e gli andamenti del Sole. Per il che fece ne l'animo un concetto si eretico, che e' non si accostava a qualsivoglia religione». Ed è per questo che ne interpretò bene lo spirito Leone X, ammiratore di Michelangelo, antagonista di Leonardo: «oimè costui non è per far nulla, da che comincia a pensare alla fine innanzi al principio dell'opera». Il suo impegno a Firenze è soprattutto per rendere mirabile la Sala del Gran Consiglio di Palazzo vecchio, su richiesta del gonfaloniere di giustizia Piero Soderini. Purtroppo non ce ne resta che una bellissima memoria di Rubens, e il vano sforzo di ricerca del sindaco Matteo Renzi: la Battaglia di Anghiari.

Ed ecco il teorema finale, l'opera della vita, i Promessi sposi di Leonardo: la Gioconda. Ad essa congiura per rappresentare non il ritratto della moglie di Francesco del Giocondo, ma l'idea stessa della perfezione femminile. Nessun mistero: la Gioconda ci guarda, all'opposto della Dama con l'Ermellino che cerca con gli occhi un uomo solo cui è totalmente devota, perché essa appartiene ad ognuno di noi; anzi essa è ognuno di noi. Diversamente da ogni altra opera, la Gioconda è vista prima in riproduzione, in una fotografia di un libro, su una parete dell'ambulatorio di un dentista. La sua riproduzione la anticipa; e poi faremo l'atto notarile di andare al Louvre per vederla, disturbati dalle nuche di centinaia di giapponesi; e così vedremo la riproduzione dell'immagine che già conoscevamo. Questa sua immaterialità, questa sua universalità a priori la identifica come l'eterno femminino. La Gioconda esiste per noi come una persona vera,come una creatura divina ed esprime il compiacimento, la consapevolezza della sua perfezione rispetto alla natura. Davanti agli elementi, l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco. Per questo sorride, per stare sopra di tutto. Superiore e distante. E l'espediente è toglierle quella postura di chi è in posa, per renderla mobile e viva: «usovi ancora quest'arte, che essendo Monna Lisa bellissima, teneva, mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facissino stare allegra, per levare via quel malinconico che suol spesso dare la pittura ai ritratti che si fanno.

Et in questo di Lionardo v'era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo». E la sua perfezione è nell'essere anch'essa, ancora una volta, incompiuta: «e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto».Sta ancora dipingendola per noi.

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