Il giallo della Comune di Parigi, la rivoluzione "in rosso"

Sono pochi i romanzi e i saggi dedicati all'insurrezione popolare che divise (e continua a dividere) la Francia

Il giallo della Comune di Parigi, la rivoluzione "in rosso"

Curioso come la più romanzesca delle insurrezioni, la Comune di Parigi del 1871, non abbia mi espresso un romanzo che la celebrasse con quella stessa intensità. E sì che gli elementi ci sarebbero stati, e ancora ci sarebbero, tutti: un popolo in armi che fa Stato a sé, una capitale assediata prima dal nemico, poi dai suoi stessi compatrioti, la fame e la miseria, ma anche la gioia e la festa, una repressione sanguinaria a colpi di cannone e di fucilazioni, deportazioni ed esili, il trionfo della reazione borghese sul socialismo, più anarchico che marxista, della classe operaia, una repubblica cittadina che si vuole universale schiacciata da una repubblica rifugiatasi a Versailles e che si proclama nazionale È come se una sorta di corto circuito s'impadronisse di una delle pagine più sanguinose e tremende della moderna storia di Francia, a un punto tale che, ancora centocinquanta anni dopo, la ricorrenza di quell'evento fatica a trovare i binari di una giusta celebrazione e, come sta avvenendo in questi giorni, affoga fra polemiche, recriminazioni, puntigliose rivendicazioni. È anche colpa di una gigantesca coda di paglia nazionale, perché a differenza della Rivoluzione dell'89, della Rivoluzione del'48, quella del 1870 sfociata poi nella Comune è idealmente all'interno della medesima Repubblica che ha allora preso il posto dell'impero umiliato e sconfitto di Napoleone III, si muove cioè nella stessa lunghezza d'onda progressista e democratica ed è in questa logica che il neo governo repubblicano scientemente e freddamente organizza il genocidio della sua componente più popolare.

Sono considerazioni venute alla mente leggendo quello che è l'ultimo, in ordine di tempo, dei romanzi in cui la Comune fa da sfondo, ma aspirerebbe anche a fare da protagonista, L'ombra del fuoco (e/o, traduzione di Alberto Braci Testasecca, pagg. 491, euro 19), di Hervé Le Corre. Qui è proprio la settimana di sangue, ovvero i giorni che, dal 21 al 28 maggio, vedono la città riconquistata dall'esercito nazionale, il luogo deputato del romanzo, un arco di tempo dove più storie si intrecciano sotto una devastante pioggia di ferro e di fuoco. Le Corre è un giallista per vocazione, autore di noir di successo, e anche L'ombra del fuoco rientra nel genere: è una serie di rapimenti di giovani donne, una sorta di tratta delle bianche a fini pedopornografici, a fare da filo conduttore del libro. Le Corre ci aggiunge gli elementi classici del feuilleton ottocentesco, agnizioni e pentimenti, colpi di mano, imboscate e regolamenti di conti, riverniciati con una crudezza di linguaggio moderna, ma via via che la lettura procede la Comune retrocede fino praticamente a scomparire. Quella settimana di sangue potrebbe avere luogo in qualsiasi città assediata, di ieri come di oggi, non ha una sua peculiarità, è insomma un deja vu

A ciò che narrativamente manca in L'ombra del fuoco, non riesce a supplire sotto il profilo sociologico un saggio, per molti versi interessante, come Lusso comune, di Kristin Ross (Rosenberg&Sellier, a cura di Mario Pezzella e Sebastiano Taccola, traduzione di Sebastiano Taccola, pagg. 183, euro 16), uscito in Italia proprio nel 250° anniversario di quei fatti. Il sottotitolo, L'immaginario politico della Comune di Parigi promette più di quanto riesca a mantenere, un po' disperdendosi nella ricerca di possibili filiazioni passate e/o future, un po' privilegiando l'idea di un'«utopia concreta» in cui «la dimensione estetica della vita quotidiana» viene data come per realizzata per il solo fatto di essere stata teorizzata. Nella realtà, la Comune fu un esperimento molto complicato dove alcune abitudini ideologiche (giacobinismo, strategia delle barricate in ricordo del'48 eccetera) si rivelarono addirittura disastrose: al suo meglio, fu il tentativo di opporre la Federazione allo Stato, ovvero l'unione per libera associazione di collettività autonome, a un'autorità centralizzatrice e costrittiva. Verranno da qui una serie di misure socialiste, ben evidenziate dai curatori di Lusso comune: «Laicità e gratuità dell'insegnamento, separazione della chiesa e dello Stato, responsabilità e revocabilità dei funzionai, diritto al lavoro e certezza per i lavoratori di essere i beneficiari della ricchezza prodotta, libertà di stampa, protezione dell'infanzia, della salute, della vecchiaia, sistema di garanzie comunali contro la disoccupazione». Sotto tutti questi aspetti, la Comune è ancora viva e lotta insieme a noi

Ciò che Lusso comune tiene ai margini, troppo preoccupato della dimensione estetica, è ciò che, all'indomani della repressione, Adolphe Thiers, ovvero il suo repressore in primis, definirà «patriottismo distorto», e che però è alla base stessa della Comune. La quale nacque, ed è significativo, dal «tentativo furtivo», la definizione è di Carl Marx, da parte del governo, di impadronirsi degli oltre 200 cannoni di Montmartre, pagati dalle associazioni di quartiere locali e appartenenti alla Guardia Nazionale. I soldati, comandati di sparare sulla folla che si frapponeva, si rifiutarono e quest'ultima fraternizzò con loro e insomma «la sua genesi spontanea e circostanziale emergerebbe dalla situazione particolare della guerra franco-prussiana e sarebbe l'esito di un forte sentimento di difesa nazionale da parte dei cittadini di Parigi». È da qui, come ha notato anni fa Alain de Benoist nel suo Mémoire vive (che uscirà quest'anno in italiano per le edizioni Bietti), che parte «la rivolta del popolo socialista e patriota contro il disfattismo borghese e la centralizzazione, il più bell'episodio della storia di Francia».

Ciò che però resta fuori da Lusso comune, così come da L'ombra del fuoco, è la più generale assenza degli artisti, pittori, romanzieri, dalla Comune in quanto tale: A eccezione di Courbet, Cézanne, Pissarro, Degas, Corot, Manet, Daumier, nel corso dell'assedio lasciarono Parigi o se ne mantennero lontani. E quanto agli scrittori, c'è la sola eccezione di Rimbaud, «la Comune brilla rossa come la fiamma in una lampada ad arco», su cui Kristin Ross insiste, ma che fu eccezione passeggera e più frutto di curiosità da avventuriero che di adesione. Del resto, la stessa Ross conviene che «il rapporto fra il linguaggio poetico di Rimbaud e lo spazio sociale della Comune non si può definire come se il primo fosse un passivo rispecchiamento del secondo: la sua scrittura non è estranea all'evento, ma allo stesso tempo non è una sua illustrazione e non si riferisce sempre e necessariamente a episodi reali». Detto meno ermeticamente, c'entra poco o niente.

Si ritorna così al punto di partenza, la mancanza degli artisti in quella che viene definita «una dimensione estetica della vita», l'edificazione «di uno stile di vita», l'arte nelle strade, in breve, l'arte alla portata di tutti

Una risposta può venire da un cronista d'eccezione dell'epoca, Edmond de Goncourt, i cui diari seguirono passo passo sia l'assedio prussiano di Parigi prima, sia l'assedio dei versagliesi, ovvero dell'esercito francese, poi. Di quei diari, l'editore Aragno ha fatto una selezione proprio relativa al periodo che ci interessa (L'assedio e la Comune. Parigi 1870-1871, pagg. 280, euro 20), curato con la solita competenza da Vito Sorbello.

Goncourt è un testimone di parte: è un aristocratico, è antidemocratico, disprezza il popolo, che per lui è la plebe. Non è però a favore di Thiers e del nuovo governo repubblicano uscito dalla catastrofe della guerra perduta. Anche lui, come il suo amico Flaubert, lo ritiene uno «stronziforme borghese», anche lui è disgustato da come l'impero di Napoleone è andato a fondo, la sua vanagloria, l'incapacità dei suoi generali. Tuttavia, la «repubblica letteraria» di cui è ora un membro illustre, di quel regime è stata parte integrante e il suo odio per il mondo borghese che, come nota Sorbello, «le assicura la sussistenza, ma la priva di autonomia», non è tale da farlo parteggiare per il popolo della Comune, i «nuovi barbari» che ne minacciano le fondamenta. Esteticamente, i barbari «sono brutti» e poiché «il brutto ha orrore del bello la loro è pura distruzione». Non per nulla sono guidati da Jules Vallès, neoministro dell'Istruzione, uno che «ha osato scrivere che Omero era da buttare nelle latrine». Per un Flaubert che depreca le donne comunarde vogliose solo dell'«assalto» dei cittadini, c'è un Gautier per il quale «dalle gabbie aperte della Comune si lanciano i gorilla». Quanto a Verlaine si chiude a chiave a casa della madre

La settimana di sangue farà 30mila morti, 40mila imprigionati, 4mila deportati, una repressione implacabile con tanto di esecuzioni sommarie per le strade.

Nata dalla guerra d'assedio, confinata nelle mura cittadine, senza alcuna possibilità di raggiungere il resto della nazione, la Parigi comunarda viene schiacciata in una guerra civile in cui l'esercito francese sfoga la rabbia e la vergogna di una resa ai prussiani di fatto incondizionata. Quanto ai suoi scrittori, volgeranno la testa dall'altra parte: l'arte per tutti, l'arte di tutti, non era la loro.

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