Gitai racconta la morte di Rabin: "Israele schizofrenico come l'Italia"

Il regista ricostruisce l'omicidio del primo ministro con spezzoni d'epoca. "Era diverso dai politici di oggi, così kitsch a Tel Aviv come a Roma"

Gitai racconta la morte di Rabin: "Israele schizofrenico come l'Italia"

La storia può aiutare a comprendere ciò che la cronaca spesso ci nasconde. A mettere insieme oggi la quotidianità dello ieri di un Israele che, con Yitzhak Rabin a capo del Governo, aveva avviato il processo di pace con i palestinesi, non sorprende tanto l'assassinio di quest'ultimo, quanto che sia stato l'unico. Sui giornali, nell'opinione pubblica, nelle piazze, nello stesso Parlamento, si respirava un clima di violenza e di tensione, con un terrorismo verbale che lo rendeva ancora più irrespirabile. Fondamentalismi religiosi e estremismi partitici disegnavano il leader laburista come un Hitler redivivo, fisicamente da abbattere per il bene del Paese, lo sgombero manu militari degli insediamenti abusivi dei coloni acuiva contrapposizioni e spaccature... Eppure, ancora oggi, a ricordare quel novembre di vent'anni fa in cui il suo marito venne ucciso, la vedova Rabin ammette che né lei né lui avevano mai creduto a una «morte annunciata». Sì, erano stata rafforzata la scorta, ridotti i «bagni di folla», ma Rabin non si era mia preoccupato di indossare un giubbetto anti-proiettile, né aveva mia pensato a qualche restrizione nella libertà di stampa o di associazione. «Siamo l'unico Paese di democrazia reale, non formale, del Medio Oriente. Le opinioni altrui vanno rispettate, con tutti i loro eccessi e i isterismi». Venne ucciso con tre colpi di pistola, sparatigli a bruciapelo, al termine di un comizio trionfale, nell'area parcheggio dove l'attendeva la macchina che l'avrebbe riportato a casa, i 90 metri quadri di chi con la politica non si era arricchito. Uno dei tre proiettili era di quelli che esplodono una volta entrati nel corpo.

Rabin, The Last Day , ieri in concorso, di Amos Gitai, è la ricostruzione di quel pomeriggio in cui, come dice, il regista, «cambiò tutto. Dopo di allora, la politica israeliana è entrata in fase di stallo, ci si è sempre più chiusi, siamo via via scivolati in una sorta di ghettizzazione ideologica dove non si è più disposti ad ascoltare le ragioni degli altri». Mischiando materiale d'epoca (in specie le riprese di un cameraman che era a pochi metri dal luogo dell'attentato e in pratica lo filmò in diretta) con una ricostruzione cinematografica della commissione d'inchiesta istituita subito dopo i fatti, Gitai rende benissimo quel clima prima ricordato e, in controluce, lo stesso Rabin. «Paradossalmente, la sua figura è una sorta di buco nero attorno a cui ruota il racconto. Non volevo farne un personaggio da fiction, truccare un attore al suo posto... Ho usato alcuni suoi discorsi pubblici, quello tenuto il giorno del suo assassinio, un intervento durante una riunione molto agitata in parlamento. Era un tipo umano di quelli che a me piacciono, senza retorica, coraggioso».

All'idea di un complotto dietro quella morte, Gitai non crede. «Non sono Oliver Stone, non penso a trame occulte. Del resto, questa è una tesi cara alla destra politica israeliana: invece di farsi un esame di coscienza preferisce parlare di mandanti nascosti, internazionali, cose così. La verità è che il processo di pace da lui voluto innescò una sorta di eccitazione isterica: non si accettava l'idea che un governo liberamente eletto potesse andare su quella strada sino in fondo, assumere quel “rischio calcolato”, sono parole di Rabin, che egli invece era disposto a correre, convinto che fosse l'unico modo per mettere in sicurezza il Paese, evitando anche di continuare a essere eternamente in guerra sotto il profilo piscologico. Non riuscendo a provocare la sua caduta politica, in fondo si aprì il terreno all'estremo rimedio... Il suo assassino era un fanatico. Poi, certo, la commissione mise in luce le falle del sistema di sicurezza, un certo pressapochismo, la mancanza di coordinamento fra polizia e servizi, stupidità, superficialità».

Opera di un integralista, quel delitto inferse un duro colpo al laicismo di Israele. «Come Stato noi siamo nati in quanto progetto politico, non religioso. La politica contempla la realtà, la ricerca di un modus vivendi . L'altra via porta al delirio e alla megalomania e non me l'auguro. Israele è una nazione strana, schizofrenica, un po' come l'Italia. In politica ha le sue volgarità, il suo Kitsch, la sua corruzione, proprio come voi. Il vostro premier precedente era così, quello attuale è amico del nostro primo ministro, che io non stimo particolarmente».

Gitai maneggia bene la storia di Israele, ma dovrebbe informarsi meglio sulla cronaca italiana.

Chissà cosa ne avrà pensato Napolitano, presente alla proiezione ufficiale del film. L'ex presidente, al termine della serata, si è complimentato col regista.

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