Un paio d'anni fa mi trovai a cena con una famosa studiosa russa di letteratura e un astrofisico italiano, appassionato lettore di romanzi.
Il vino, un barricato marchigiano di eccellente fattura, scendeva copioso dai crateri e induceva ai giochi. Ne inventammo diversi, ma il più riuscito fu quello che ci vide per un paio d'ore finché cioè il proprietario del locale non ci invitò a pagare il conto intenti nella trasformazione del genere-Romanzo in una galassia con tanto di centro, supernove, supergiganti rosse, giganti azzurre, stelle di neutroni, quasar.
Al centro della galassia c'era, naturalmente (non solo in omaggio alla nazionalità della gradita ospite ma anche alla pura verità) una stella doppia di enormi dimensioni. I nomi delle due stelle: F. M. Dostoevskij e L. N. Tolstoj.
Due nomi a un tempo incompatibili e complementari. Che sarebbe già una buona definizione in sé di cosa diavolo sia un romanzo: un insieme, appunto, improbabile e necessario di oggetti incompatibili e complementari.
Il grande romanziere crea, non riproduce il mondo. Non dipinge affreschi. Come scrisse Lessing a proposito dell'uomo di genio, «Ciò che lo commuove, commuove. Ciò che/ gli piace, piace./ Il suo gusto felice è/ il gusto del mondo».
La similitudine astronomica è utile per non rinchiudersi troppo in definizioni precostituite e limitanti, come quella che vuole lo scrittore dispensatore di emozioni. A meno che non includiamo tra le emozioni anche il pensiero e la conoscenza, meglio osservare con piacere i differenti colori delle stelle: ce n'è indubbiamente di rosse, ardenti, passionali, ma ci sono ancora quelle azzurre, più riflessive, illuministe, e poi quelle bianche, piccole e incandescenti come le poesie di Emily Dickinson, di Majakovskij.
Se l'unità di misura corrente è la lettura tutta d'un fiato, il non potersi staccare dal libro, la perdita del sonno, la luce del comodino accesa a tarda notte se non alle prime luci del giorno, bene: meglio godersi lo spettacolo dei tanti colori dell'universo, imparare a ridimensionare una foga eccessiva e ad apprezzare la sana noia che c'impongono autori la cui immensità si rivela solo a ritmi blandi, a letture interrotte e desultorie.
Ma, se il Romanzo è una galassia, che posto avrebbe in essa l'autore di quello che in più d'uno, tra cui Giovanni Testori, considera il più bel romanzo scritto dalla seconda guerra mondiale a oggi, ossia Sotto il vulcano? Con buona pace di Herzog, di Cent'anni di solitudine, di Conversazione nella Catedral, di Pastorale Americana?
Che posto dare a questo Dante ubriaco, che fu per tutta la sua breve vita Malcolm Lowry?
Già autore di una ri-traduzione del capolavoro già eseguita nel 1961 da Giorgio Monicelli, lo scrittore Marco Rossari si è spinto nel tentativo eroico di recuperare in traduzione italiana il libro perduto di Lowry, Verso il Mar Bianco (In Ballast to the White Sea, Feltrinelli, pagg. 350, euro 25) che lo stesso autore al momento di morire considerava distrutto in un incendio, e che è stato pubblicato in Inghilterra dopo un'operazione filologica degna di un certosino - solo nel 2013.
Questa bizzarra vicenda basterebbe da sola a mettere Malcolm Lowry al centro del secolo trascorso, che è stato per molti aspetti un secolo di manoscritti bruciati, distrutti ora dal potere costituito ora dalla furia autodistruttiva che c'è in noi, sepolti in svariati modi e poi talora recuperati. Da Franz Kafka che conclude la sua avventura di scrittore ponendo la letteratura nel novero dei tentativi falliti, insieme al giardinaggio, a Michail Bulgakov, che su un manoscritto bruciato costruisce il suo immenso Maestro e Margherita, fino alle vicende quasi incredibili di Vita e destino.
Balza agli occhi una certa differenza con la narrativa di oggi, fatta di computer, agenti, presentazioni, lanci sui social.
Chiedersi quale dei due modelli sia migliore sarebbe ozioso. Ma forse, per tornare al gioco della galassia, può essere utile osservare come il modello odierno, più ordinato senza dubbio, abbia in qualche modo cancellato dalla mappa celeste i famigerati buchi neri, i pescecani del cosmo, i divoratori di luce e di materia, dalla cui formidabile concentrazione nessuna forza può evadere, una volta catturata nella sua orbita.
La questione è interessante perché quella stessa sera il solo nome che fu associato ai buchi neri fu proprio quello di Malcolm Lowry.
La leggenda vuole che Lowry abbia trascorso più da ubriaco che da sobrio la parte adulta e produttiva della propria esistenza. Ma queste sono curiosità di scarso interesse, a parte la metafora che l'atto del bere suggerisce. Lowry fu tormentato dall'incapacità di far evadere dal suo mondo troppo denso, troppo stratificato, uno squarcio che potesse trasformarlo, come direbbe Montale, in alberi case colli per l'inganno consueto, che potesse trasformare l'inferno in una città, in un'avventura di guerra, in una storia d'amore, in uno scarafaggio, in un flusso di memoria.
Se, nel caos di un mondo interiore troppo grande e incontrollabile, riuscì a Lowry il miracolo di Sotto il vulcano (un miracolo paragonabile solo alla Notte stellata sul Rodano, capolavoro di un Van Gogh già preda del disordine mentale con i suoi fantasmi invincibili), si può dire che il resto della sua opera, compreso il primo Ultramarina e soprattutto quest'ultimo Verso il Mar Bianco, ce ne mostrino piuttosto i ruderi.
Nulla, o quasi, passa dalla pagina al cuore avventuroso del lettore affamato di storie. Qui la storia si perde, si fa ipotetica, diventa suicidio e insieme speculazione dotta, l'intelligenza cerca di spegnersi così da dimenticare nella morte, o in qualche altro viaggio senza ritorno il disastro che la vita le presenta come un conto troppo alto da pagare.
Lowry aveva predisposto il romanzo, eccome! Ne aveva tracciato le linee. Due giovani studenti di Cambridge, figli di un armatore, si ritrovano dopo che uno dei due si è salvato dal naufragio di una delle sue stesse navi. Il suo desiderio di essere uno scrittore, il sospetto che la sua storia sia già stata scritta da qualcun altro e il bisogno di ritornare in mare, di abbandonare la noiosa cultura sono il segno di un progetto letterario che però scricchiola fin dall'inizio sotto il peso di un enorme affollamento di simboli.
Nulla riesce a stare in piedi da sé, tutto rinvia a qualcosa che rinvia a sua volta, ad libitum. L'ordine della narrazione è un'impresa per archeologi disposti a ritrovare il disegno sotto le macerie, ma è mio sospetto che il disegno sia corrotto all'origine, che i fili s'ingarbuglino fin dai preparativi. La lettura procede sospettosa, in mezzo a frasi della cui comprensione lo stesso traduttore non può essersi fatto carico: come dice un grande traduttore, Raul Montanari, compito di chi traduce non è comprendere o interpretare, ma solo «mettersi lì e tradurre», e c'è da credere che anche Rossari più di questo non abbia potuto fare.
Eppure, come gioielli caduti e ritrovati tra le macerie, quanti momenti di straordinaria potenza, quante folgorazioni in questo libro. È così che Verso il Mar Bianco chiede di essere letto: non tutto d'un fiato, ma con la pazienza dei cercatori d'oro, che setacciano sabbie fluviali per intercettare, qua e là, un sassolino, una pagliuzza rivelatrice. Ho tempestato la mia copia del romanzo di sottolineature, e alla fine c'è da piangere al pensiero dell'immenso giacimento, intravisto pagliuzza dopo pagliuzza, che non riuscì come accade in tutti i buchi neri a sorgere alla luce. Ma c'è anche un rovescio della medaglia, per fortuna.
Dopo la fatica della lettura, tornare ai soliti libri che si leggono d'un fiato è più difficile, li prendiamo in mano e ci sentiamo un po' più stupidi, cerchiamo la leggerezza ma ci sentiamo troppo leggeri, e ci sfiora il sospetto che leggere non sia soltanto divorare storie o fare il pieno di emozioni, e che uno scrittore sia in realtà uno sciamano e Malcolm Lowry lo fu senza dubbio - capace di comunicare con il centro della terra, dove il magma infuocato si muove sempre in attesa del buco, del cratere dove uscire per distruggere e, insieme, vivificare la terra.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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