Cultura e Spettacoli

Greene, che si giocò vita e letteratura alla "Roulette russa"

Spia e scrittore, viveur e cattolico, si sentiva "un esiliato", ma i (suoi) libri lo salvarono

Greene, che si giocò vita e letteratura alla "Roulette russa"

Uno dei giudizi più interessanti su Graham Greene lo ha dato John Le Carré, il romanziere che più gli somiglia quanto a tematiche, atmosfere, personaggi, oltre ad aver avuto la sua stessa, come dire, militanza spionistica, attività che nell'Italia intellettuale suona come una parolaccia, ma in Inghilterra è sempre stata considerata una pratica onorevole, da Christopher Marlowe a Noël Coward... «Anche quando era oppositivo, pensava di stare cambiando la storia del mondo», osserva in proposito Le Carré. Era il risultato di un connubio perfetto, perché il lavoro di intelligence, «la sorveglianza, la segretezza delle tue percezioni (che tieni per te) e la sensazione di alienazione, di essere un osservatore più che un membro della società», una volta trasferite nel lavoro di scrittore davano vita «a un tipo di pensiero al rovescio che non ti lascia mai. Ha a che fare con il manipolare la gente e con l'autoesame». In sostanza, il compito di carpire informazioni si trasformava, dal punto di vista narrativo, in una continua analisi introspettiva e conferiva a chi era «in questa modalità un potere superiore che è assolutamente morboso», fino ad arrivare al punto da cui siamo partiti, una preminenza dello scrittore che era tutt'uno con una reputazione politica. Dal Messico di Il potere e la gloria all'Haiti di I commedianti, passando per l'Argentina del Console onorario, la Cuba pre-castrista di Il nostro agente all'Avana, l'Indocina ancora francese di L'americano tranquillo, Greene non si limitava a scrivere romanzi, ma assumeva un ruolo pubblico, di coscienza critica, se si vuole. Il rovescio della medaglia era che nel portare sul banco degli imputati il cattivo del momento, era difficile constatare, a una successiva verifica, che al suo posto si fosse insediato il buono di turno... Una fatica di Sisifo, insomma, che in parte spiega il cattolicesimo tormentato di Greene, l'idea di un male insito nella natura umana, il peccato come condizione irredimibile su questa terra. Ciò che alla fine nobilmente restava è che «lo scrittore dovrebbe essere sempre pronto a cambiare opinione seduta stante. Si batte per le vittime, e le vittime cambiano».

Il giudizio di Le Carré lo si può trovare in Roulette russa. La vita e il tempo di Graham Greene (Sellerio, traduzione di Chiara Rizzuto, pagg. 871, euro 24), la biografia di Richard Greene, un omonimo e non un parente dello scrittore, imponente, ben scritta, documentatissima e tuttavia un po' sfiancante, come spesso accade nella tradizione anglosassone del genere, dove la pretesa di voler rivelare tutto finisce con il dare al superfluo lo stesso peso dell'essenziale, e quella di volere tutto spiegare a volte coincide con lo spiegare poco o niente. Si veda, per esempio, il complicato rapporto di Greene con il denaro, da un lato visto come un incentivo al creare, dall'altro avvertito come un fattore di rischio, la sicurezza economica che porta all'inaridimento... Il Greene biografo ne dà conto, ma resta difficile vedere nei rovesci finanziari causati negli anni Sessanta dai pasticci e dalle truffe del suo agente editoriale «un servizio alla letteratura» e legarli con il fatto che «all'epoca in cui le diverse frodi furono scoperte, le sue energie creative erano rinate»...

Uno dei temi di Roulette russa è Greenelandia, ovvero il territorio e/o l'universo geografico-umano di Graham Greene. Al diretto interessato il termine non piaceva, lo considerava riduttivo e dal suo punto di vista aveva ragione, ma noi semplici lettori non siamo nel torto quando ce ne appropriamo: ci aiuta a semplificare, ci consente di capire meglio. Il suo principale abitante è naturalmente Greene stesso, perché anche Greene è un personaggio da romanzo di Greene, adultero e cattolico inquieto, amante del rischio, dell'alcol e con pulsioni distruttive, cavaliere delle cause perse e però uomo di mondo, generoso e insieme calcolatore, sempre e comunque insicuro, diffidente nelle amicizie per un complesso di colpa infantile, l'essere stato lo studente di un istituto di cui suo padre era il direttore, e quindi «un giuda» potenziale per i suoi compagni, un «esiliato», in casa e a scuola, per sua stessa ammissione. Questo spiega anche, nonostante la sua capacità nel descriverla, la sua poca attenzione alla natura: «La natura non mi interessa, se non nella misura in cui può contenere un'imboscata, cioè qualcosa di umano». E infatti Greenelandia è un territorio pericoloso non per l'asprezza del clima o la durezza del suolo o il suo essere popolato da animali feroci, quanto per la presenza del fattore umano...

Al suo interno, un posto d'onore, «un colpo di fulmine» è scritto in Roulette russa, lo merita quell'Indocina non ancora Vietnam che Greene frequentò e poi raccontò in L'americano tranquillo e dove l'intreccio anche carnale fra Oriente e Occidente, nonché «l'atmosfera di gaiezza nonostante le granate», era un qualcosa che gli risultava comprensibile non solo nel suo corteggiare il rischio, ma anche dal punto di vista religioso. Era la terra del Caodai, con la sua complicata serie di numi tutelari che vedeva insieme Gesù Cristo, Maometto, Budda, Sun Yat-Sen, La Rochefoucauld e Victor Hugo... Quando Greene ne fece conoscenza era la religione più praticata del Delta del Mekong, dotata di una struttura gerarchica con un Papa al suo vertice, un sacerdozio maschile e femminile con tanto di donne cardinali, forte di un proprio esercito, con un'idea di indipendenza politica antifrancese e insieme anticomunista. Greene ne rimarrà a lungo sedotto e c'è un suo bellissimo resoconto dell'incontro con uno dei signori della guerra al servizio del Caodai, il colonnello Leroy: viveva su un'isola, citava Montesquieu, leggeva Tocqueville, si muoveva a dorso di elefante, lo accolse mettendo sul grammofono il tema conduttore del film Il terzo uomo...

Fu lì che per la prima volta Greene sperimentò una sorta di «senso di colpa». Era «nelle vesti di turista in abiti civili nelle regioni della morte». Era già stato prima in luoghi cosiddetti caldi, in Africa come in Centroamerica, ma il Vietnam francese si elevava al di là delle semplici repressioni, dei tribalismi, della miseria, persino delle catastrofi umanitarie. Era la prova generale di ciò che la decolonizzazione da un lato, la teoria americana del domino in funzione anticomunista dall'altro, avrebbe significato per tutta la seconda metà del Novecento e ancora oggi continua a significare in termini geopolitici: neocolonialismi economici, populismi dittatoriali più o meno eterodiretti, sradicamenti identitari, interventi militari umanitari, esportazione della democrazia con le armi eccetera. Molto dell'antiamericanismo di Greene proviene da qui.

La scrittura fu la salvezza di Greene in Greenelandia. Senza mai essere stato un teppista, era stato però un ragazzo la cui insicurezza aveva bisogno di sensazioni forti come antidoto, e non a caso il titolo della biografia rimanda a una delle tentazioni adolescenziali di Greene. La scrittura si rivelò per lui «una forma di terapia. A volte mi domando come riescano, tutti coloro che non scrivono, non compongono musica o non dipingono, a sottrarsi alla follia, alla malinconia, al timore panico che sono inerenti alla situazione umana». Il pericolo in Greenelandia non veniva dall'esterno..

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