"Guai a dimenticare le proprie radici, anche nella musica"

Il grande direttore d'orchestra tedesco, noto per la sua "scorrettezza", torna alla Scala

"Guai a dimenticare le proprie radici, anche nella musica"

Per il direttore d'orchestra Christian Thielemann (Berlino, 1959) la vita non era facile prima dell'avvento della cancel culture e dell'inclusività senza limiti. Figuriamoci ora in tempi di patenti morali rilasciate sulla base di nazionalità, religione, genere, etnia. Thielemann ha la fama di essere conservatore, sciovinista, islamofobo, reazionario, un dio sul podio ma politicamente scorretto, infatti non sta a sinistra. Per questo vide sfumare la nomina a direttore dei Berliner Philharmoniker, così come a Dresda non gli è stato rinnovato il contratto in scadenza nel 2024 (gli subentrerà l'italiano Daniele Gatti).

Rimane una verità: in tanto repertorio è il numero uno, glielo riconoscono anche i detrattori. Quando in novembre diresse la Filarmonica della Scala fu un tripudio, una delle serate sinfoniche più riuscite degli ultimi anni, ancora se ne parla. A distanza di tre mesi, Gergiev replicò il miracolo con la Dama di Picche, si sa quanto accadde l'indomani, estromesso dai teatri d'Occidente poiché legato a Putin. Interrogativo: meglio il musicista politicamente corretto (corretto sulla base di quali parametri?) ma che non ti porterà mai in vetta, oppure quello scomodo, con macchie vere o presunte, ma che il suo mestiere lo fa come nessun altro?

Thielemann torna alla Scala l'8 e il 9 settembre questa volta a capo della Staatskapelle di Dresda. Dovrebbe poi tornare a Milano per dirigere il Ring di Wagner.

L'Italia non è mai mancata nella sua agenda.

«È un Paese che amo da sempre. Quando Meyer, il sovrintendente della Scala, mi telefonò per un concerto last minute, ero in visita a Paestum: non c'erano turisti, che sogno. Avete un patrimonio importantissimo, qui batte il cuore dell'Occidente».

Possiamo ancora parlare di identità nazionale delle orchestre?

«Un'orchestra italiana rimane italiana, l'ho sperimentato anche con il complesso della Scala. Ed è cosa più che giusta: guai a dimenticare le proprie radici, quindi va bene se un'orchestra italiana legge il repertorio russo o tedesco attraverso lenti latine».

Salviamo la musica dalla globalizzazione. Che dice?

«Non mi piace granché la globalizzazione. Se dimentichiamo le nostre radici diventiamo una miscela senza personalità. Difendere la propria storia non c'entra con l'arroganza di chi si ritiene il migliore e annulla gli altri. Semmai vuol dire che puoi sperimentare sia la cucina del Nord sia quella Sud, può ascoltare le orchestre del Nord che suonano in un certo modo ma anche godere delle sonorità dei complessi del Sud. Si vive in modo diverso a seconda del luogo in cui si è, dunque si suona in modo diverso. Tutto deve accadere con naturalezza».

Cos'è la naturalezza?

«Vuol dire non fare troppe storie. Prendiamo le cosiddette star. Cosa significa essere una star? Venire alla prova in ritardo e poi dire che non canterai perché non va qualcosa?».

In questi casi, Lei come reagisce?

«Insisto che si provi. E guardi, con le vere star si lavora sempre molto bene, arrivano puntuali, fanno una bella prova e se ne vanno. È gente che non si dà arie, forse perché ha compreso che gli atteggiamenti divistici chiedono inutili fatiche».

Quando i giornali titolano «Thielemann, il più grande direttore tedesco», cosa le vien da pensare?

«Grande, piccolo. Non so. Io ho impostato la mia attività sul duro lavoro e disciplina. La vita dell'artista è complessa, se avessi capito le implicazioni di questo mestiere non l'avrei scelto, però è l'unico che so fare».

Cosa pesa di più sul piatto dei «meno»?

«Le lotte con la politica. Poi ci sono certi personaggi difficili. Rimane comunque una professione che regala tanti momenti stupendi».

Angela Merkel appena poteva veniva ai suoi concerti e opere.

«Ci siamo intesi sempre bene. E in privato ci siam detti cose non comunicate in pubblico».

È noto per essere diretto, atteggiamento che ha causato problemi. A freddo, poi si pente di tanta schiettezza?

«Ha a che fare con il mio essere di Berlino. Lì siamo così, ci piace dire le cose come sono, senza grandi diplomazie. Però sono migliorato, quand'ero giovane dicevo tutto senza filtri, per poi dirmi: "Oddio come hai potuto?. Del resto, le cose nascoste e labirintiche non fanno parte della mia natura, in fondo sapere come uno la pensa rende tutto più semplice. Anche in musica devi essere sincero e chiaro, non si può mentire. La musica è il momento della verità. Non esiste il musicista diplomatico, sarebbe un ossimoro. Quando hai a disposizione tre prove in tutto non puoi rivolgerti all'orchestra dicendo Sarebbe meglio far così, cosa ne dite se. Devi dare direttive: o piano o forte».

C'è sempre la statua di Federico il Grande sulla sua scrivania?

«Più di una, inoltre ho una collezione di suoi ritratti. Sono interessato alla storia della Prussia e in generale del Nord Europa ma come tanti tedeschi sono affascinato dall'Italia. Penso che Germania e Italia siano due nazioni complementari, ciò che manca all'una, l'ha quell'altra. Come potrebbe esistere la Germania senza la ricchezza del vostro Paese? E la stessa Italia cosa sarebbe senza l'apporto dei Greci? Avete una tale concentrazione di monumenti che bisogna mettere ordine nella testa altrimenti si va in confusione.

L'ultima volta che son stato a Milano ho rivisto il Duomo, Sant'Ambrogio, L'Ultima Cena, il Poldi Pezzoli. Ma anche qualche negozio in via Montenapoleone: che belle vetrine... Quando si lavora bisogna cedere a qualche seduzione».

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