Da Luzzara, bassa reggiana, al mondo: ascoltando il dialetto, bàss mantuàn, e dialogando sempre, per una vita, ovunque, con chiunque - registi, scrittori, artisti, giornalisti - parlando la lingua universale della Cultura.
Da un lato il Po, dall'altro la scrittura: sono i due argini dentro i quali è corsa via la vita di Cesare Zavattini (1902-89), sceneggiatore, narratore, drammaturgo, poeta, uomo di editoria, pittore autodidatta (ci sono 1500 suoi quadri in giro per il mondo) e collezionista d'arte... Zavattini fu tante cose - intellettuale dalla A alla Z, anzi: Za - e di lui si è raccontato molto. Ma non si è detto tutto. Finora era rimasto fuori lo Zavattini «internazionale». Ci mancava il ritratto dello scrittore italiano che più di tutti, dagli anni '50 ai '70, e anche un po' prima e un po' dopo, ha saputo promuovere all'estero la nostra cultura, tessendo una fittissima rete (oggi si dice network, ma era l'epoca della macchina per scrivere) che attraverso conferenze, festival, seminari, incontri, convegni, pubblicazioni e co-produzioni cinematografiche collegasse il nostro cinema, la nostra letteratura, la nostra arte al resto del mondo, da New York (che non amava così tanto) ad Algeri (dove andò per presentare il suo progetto internazionale «cinegiornali liberi»). Insomma: Zavattini oltre i confini, che è il titolo della mostra - ricca, originale, trasversale - che in occasione dei trent'anni dalla morte, organizzata dalla Fondazione palazzo Magnani, inaugura oggi a Palazzo da Mosto di Reggio Emilia (fino al 1° marzo 2020).
Dieci sale, centinaia di pezzi (dattiloscritti, lettere, libri, taccuini, giornali, telegrammi, riviste, locandine, video, quadri, fotografie, tutto proveniente dall'Archivio Zavattini oggi conservato nella Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia) e un curatore, Alberto Ferraboschi (a capo di un team di studiosi e esperti nei relativi settori, da Guido Conti a Valentina Fortichiari, da David Brancaleone a Stefania Parigi) per mettere in scena un lungo viaggio letterario, cinematografico e politico di un autore colto, sperimentatore, curioso, impegnato, vicino al Pci, ma mai iscritto al Partito, e fuori dagli schemi. Difficile inquadrarlo nelle categorie intellettuali del suo tempo. Che è stata allora la sua forza, ma oggi è la sua debolezza: è più difficile ricordare un eclettico. Anche se poi tutto parte sempre dalla scrittura - il primo pezzo in mostra è la sua Olivetti Lexikon 80 - mentre tutto finisce in giro per il mondo: Europa, America latina, Stati Uniti, Africa...
Bagaglio leggero e un segno pesante lasciato dietro di sé - è stato l'icona del neorealismo, uno sguardo cinematografico così local e dal successo così global - Cesare Zavattini viaggiò sempre, tantissimo, mai per piacere ma per conoscere le culture altre e per far conoscere la nostra cultura agli altri. Che tipo, Za. Non parlava alcuna lingua, neppure l'inglese o il francese, a malapena un po' di spagnolo, zero grammatica e tanti gesti, ma sapeva lavorare con chiunque. Ogni barriera linguistica si può abbattere con una buona idea.
In Zavattini l'idea del viaggio nasce prestissimo. La sua prima collaborazione editoriale, negli anni '30, è il soggetto per un fumetto di fantascienza su un viaggio spaziale, e il suo primo libro è Parliamo tanto di me (1931), una raccolta di brevi racconti che narra di un viaggio nell'aldilà... Poi, da Saturno si arriva al Po, dall'oltretomba alla Padania... Il viaggio lungo il fiume Po per Zavattini è, di volta in volta, un diario, un racconto, la scena di un film, un reportage per un volume illustrato con le fotografie di William Zanca...
Il viaggio come conoscenza, come ricerca, come impegno civile (come guerra «fredda» culturale...), come habitus. Nella prima teca c'è il suo materiale di viaggio: il basco nero, la borsa di pelle, i passaporti, il tesserino di giornalista, le tessere Alitalia... e poi i suoi «biglietti da visita» che gli aprivano tutte le porte del mondo: i fotogrammi con le scene di Ladri di biciclette per la trasposizione in cinese del film e i suoi libri tradotti in ceco, tedesco, spagnolo, francese... Cinéparoles.
Si parte. Ogni sala: un Paese, cento incontri, mille progetti, lezioni, collaborazioni, interviste, rassegne cinematografiche... Francia: ci va la prima volta nel 1938. Oltralpe e oltre il cinema. Neorealismo e non solo: letteratura, teatro (a Parigi va in scena la sua commedia Come nasce un soggetto cinematografico), arte: rincorre Jean Dubuffet, conosce e diventa amico dei critici André Bazin e Georges Sadoul, incontra René Clair. E, tra Francia e Olanda, siamo negli anni '50, si lancia nel progetto di un film su Vincent Van Gogh (titolo provvisorio: L'uomo dall'orecchio tagliato) di cui esistono dieci soggetti diversi ma che non si farà mai perché il produttore americano lo vuole troppo hollywoodiano per i gusti dell'italiano... Spagna: è qui nel '53, sotto il generalissimo Francisco Franco. Prende contatti con i giovani cineasti spagnoli del dissenso, nel '54 intraprende un viaggio-inchiesta di due mesi per tutto il Paese, scrive la sceneggiatura di Cinco historias de España... America latina: in Messico nel '53 lega con David Alfaro Siqueiros e Diego Rivera - política y murales - e spiega che l'ispirazione del neorealismo è la stessa dei muralisti: «Il popolo vedendosi là (su un muro, su uno schermo) si conosce meglio e ha più fede nella propria importanza». In Colombia invece Gabriel García Márquez gli tributa il riconoscimento máximo: il suo romanzo Cent'anni di solitudine è debitore della visione di un film scritto da Zavattini. Milagro en Milán. Cuba: tra gli anni '50 e '60, più volte sull'isola, Za assiste alla grande trasformazione dal regime di Batista alla rivoluzione castrista. Avvia il progetto «Cuba mia» con i giovani cineasti del luogo, tiene lezioni e seminari, conosce personalmente Fidel, pubblica un lungo reportage a puntate su Paese sera nel 1960. Stati Uniti: quattro viaggi tra gli anni '60 e '70. Al Moma di New York viene ritratto dal fotografo Duane Michals, ma quella non è la sua America, troppo commerciale («Non ho traversato l'Atlantico per vendere l'anima») e la sintesi del suo soggiorno è il titolo dell'intervista di Oriana Fallaci a Zavattini per L'Europeo nel 1966: «Gli americani sono matti». Oltre la Cortina di ferro: Budapest, Bucarest, Praga, Mosca... Nei Paesi del realsocialismo Zavattini per tutti è il neorealismo. Il grande progetto è un film sulla pace, per una casa di produzione jugoslava: Rat (La guerra, 1960), regia di Veliko Bulajic, soggetto e sceneggiatura di Cesare Zavattini. Africa (e impegno terzomondista): nel 1958 l'Eni gli commissiona un documentario etnografico, mentre nel 1962 lavora a un film sulla Diga di Assuan nell'Egitto di Nasser che però non verrà mai girato... Resterà il progetto di un film, Il nero (1965), sugli italiani di colore...
Non resta, allora, che il ritorno a casa. Cesare Zavattini - un cosmopolita figlio fedelissimo della propria terra - crede nella memoria, nell'identità e nelle radici. L'ultima sala finisce dove tutto aveva avuto inizio: nella sua Luzzara, dove si raccolgono tutti i suoi ricordi e le sue cose più preziose. Da un parte la sua meravigliosa collezione di quadretti 8x10, ognuno con l'autoritratto di un grande artista del suo tempo: ne mise insieme circa 1500, qui ce ne sono 150 (che arrivano dalla Pinacoteca di Brera di Milano), tra cui quelli di Ligabue, Burri, Guttuso, de Chirico, Fontana, Munari, Depero, Rotella...
E dall'altra venti scatti fino a oggi mai visti che furono esclusi dal celebre libro Un paese vent'anni dopo (1976) con i testi di Zavattini e le foto di Gianni Berengo Gardin dedicato ancora una volta, come Un paese (il foto-libro che firmò con Paul Strand nel 1955), a Luzzara.Il viaggio è finito. «Attraversammo strade sotto il livello del mare ventilate solo dai pensieri».
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