Guy Gunaratne, alla "periferia" della società multiculturale

Non sarà "il" dilemma della modernità, ma certo l'idea di una società multietnica e, soprattutto, multiculturale da diversi anni è materia di accese discussioni

Guy Gunaratne, alla "periferia" della società multiculturale

Non sarà «il» dilemma della modernità, ma certo l'idea di una società multietnica e, soprattutto, multiculturale da diversi anni è materia di accese discussioni. La sinistra la considera un'opportunità o, quantomeno, un aspetto inevitabile della globalizzazione; la destra la avversa come utopia ingestibile.

Talvolta, un bel romanzo contribuisce a trovare un punto di incontro. E La nostra folle, furiosa città di Guy Gunaratn (Fazi, pagg. 286. euro 18,50; traduzione di Giacomo Cuva) è un bellissimo romanzo e quello fa: aiuta il lettore a collocarsi nella propria zona confortevole in seno a un problema che tale resta e che nulla di ciò che appare all'orizzonte, almeno nel medio periodo, sembra orientato a spazzare via.

Di per sé, la storia scritta da Gunaratne non è nulla di rivoluzionario. E non pare azzardato immaginare che l'autore abbia tratto spunto da un terribile fatto di cronaca: nel 2013, il fuciliere Lee Rigby fu ucciso a colpi di machete da due inglesi di origine nigeriana, un attacco terroristico di matrice islamica.

Ne La nostra folle, furiosa città, tre amici si apprestano a trascorrere quella che dovrebbe essere l'ennesima estate di svaghi giovanili. Ma un militare bianco viene ucciso da un giovane nero e la violenza urbana si scatena, guastando i loro piani e accelerando il loro processo di crescita e la presa di coscienza della loro realtà di stranieri nel Paese in cui sono nati, l'Inghilterra, e di estranei nella comunità a cui appartengono, ovvero quella caraibica per Selvon, pakistana per Yusuf e irlandese per Ardan. A raccontare in prima persona drammi e aspirazioni di persone normali, poco più che numeri negli affollati e spersonalizzanti sobborghi della metropoli, sono loro stessi, insieme al padre di Selvon e alla madre di Ardan, Caroline, un'altra indesiderata cittadina londinese, seppur bianca, in quanto di una famiglia cattolica dell'Ulster legata al movimento repubblicano. La religione c'entra poco, persino se alla violenza razziale si mischiano le spinte integraliste della comunità islamica locale, ma la fede si mette spesso di traverso quando giovani a cui non importa nulla del retaggio culturale dei propri genitori e che sono unicamente interessati al divertimento, cercano la propria collocazione nel mondo.

Attraverso dialoghi allitterati, figli di una globalizzazione del linguaggio urbano che unisce i ghetti neri e bianchi dagli Usa alle megalopoli europee e alle periferie di America Latina, Africa e Asia, Gunaratne traccia un quadro magistrale dell'internazionale del disagio sociale e della sua cristallizzazione in una ribellione da strada che si nutre di hip-hop e abbigliamento rapper. Le «torri» in cui i protagonisti conducono la loro grigia esistenza potrebbero essere le Vele di Scampia o i Divis Flatts di Belfast o i projects di Detroit o Chicago.

I protagonisti sono accomunati da una voglia di evasione che si scontra con l'ineluttabilità del destino a cui sono votati e da un distanziamento culturale che non desiderano, ma che non riescono ad annullare.

«Londra non è il posto giusto per sceglierti il futuro che vuoi e che hai desiderato, devi prenderti quello che ti capita».

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