Cultura e Spettacoli

Handke è un estraneo ma ci rende familiare ciò che sta dietro le cose

In «La ladra di frutta» lo scrittore premio Nobel conferma la sua arte disturbante. E feconda

Handke è un estraneo ma ci rende familiare ciò che sta dietro le cose

La Letteratura: o è un banale supporto o conferma (leggi: storytelling) del mondo e delle sue cosiddette idee così come ci si presentano, insistenti, assertive anzi imperative secondo un progetto inconsaputo di progressivo annichilimento di ogni ombra di Pensiero; o, se così non è, allora dev'essere accettata nella sua capacità di portarci dove non vorremmo, ossia dietro le cose, o meglio nel didietro delle cose, di mostrarci le parole della paura e anche del ribrezzo, di destabilizzare quelle stesse idee, di renderci non necessariamente migliori e più comprensivi, anzi - perché la Letteratura è anche cattiva, sa essere imbarazzante, e non aspetta salvacondotti. E il vero lettore è chiamato a un solo, supremo compito solitario e amorale, che comprende tutti gli altri compiti: decidere se «è» o se «non è» Letteratura.

Ma per obbligare a tale decisione ci vogliono gli scrittori adatti, che non sono tanti, precisamente sono coloro che alle parole «come si racconta una storia» vengono presi da sano vomito, e odiano le fettine di torta nei bar-libreria e passeggiano per le sedi dei festival letterari come dentro un fitto bosco e destano imbarazzo nel mondo della cultura, con le loro scarpe luride di fango e i loro modi sospetti, poco civili. Oppure eccoli impeccabili, affabili, ma è una recita: sono spie nemiche. Uomini capaci, curvando lo spazio e il tempo della lettura, di mostrarci il vuoto e la demenza della letteratura-spettacolo, della seriosa letteratura gne-gne che ci ammorba, me incluso.

Peter Handke. Ecco uno di loro. Impresentabile, insignito di Nobel ex-aequo, ossia di mezzo Nobel: con tante scuse. Nessun riassunto, nessuna esegesi, nessuna recensione per La ladra di frutta (Guanda, pagg. 430, euro 20, traduzione di Alessandra Iadicicco). Si recensiscono i libri sui quali passeggiamo, i libri che fanno sistema (il sistema della letteratura), quelli di cui conosciamo la tassonomia, la geopolitica, quelli che non escono dal quadro generale.

Con Peter Handke non funziona, non ha mai funzionato così. Lo si approccia con cautela: è scoraggiante, ahimé: la lettura non fila via liscia, non lo si legge tutto d'un fiato, non gli si possono imporre i tempi della giallomania, della sagamania, non lo si legge in autobus, non è un caro amico, non è uno che ci sembra di conoscere da sempre. È un estraneo.

Allora siamo costretti a rallentare, ad accettare tempi che si rivelano solo poco per volta, piano piano. La lettura diventa un atto politico, tattico. Ma, una volta rivelati, quei tempi così distanti dai nostri ci offrono un piacere che nemmeno l'ostacolo della lingua tradotta ci può togliere. Se esiste un autore degno de Il piacere del testo di Barthes, questo è Handke, assai più che Robbe-Grillet o Sollers.

«Ho evitato» leggiamo «di gettare anche il minimo sguardo là dove sussisteva il pericolo che mi balzasse all'occhio una traccia o, Dio ne scampi, il frutto del mio essere stato in azione». E poco oltre: «che sollievo dava invece ciò che, anziché opera e proprietà, si chiamava opera della natura».

Ecco. C'è qualcosa di non umano nel suo discorrere per frammenti, nel suo costruire il romanzo (se romanzo è) per spostamenti progressivi, talora infinitesimali, oppure per distrazioni, per richiami. Sì, qualcosa di non umano che non è però disumano, e attrae il lettore attento. È soltanto un procedere non antropomorfico. Non ci sono disegni, progetti, l'uomo di Handke non è una linea retta, è fatto di interruzioni, di ripensamenti, di inversioni di rotta, di dimenticanze, di memorie insensate che ritornano senza nesso col presente.

Certe pagine di Handke potrebbero essere state scritte, anziché da un uomo, da una farfalla, o da un amminoacido, o da un octopus. La forma così come la si intende si perde, un'altra si profila. È la sfida kantiana, l'ossessione di Schopenhauer: si può conoscere il mondo al difuori di noi stessi, della nostra rappresentazione? I robot inghiottiranno questa domanda, e non ne resterà nulla.

Ma qui sì, qui la domanda persiste, e una storia si disegna: la storia di qualcun altro, che non vuole essere conosciuto. Ladra di frutta, ladra di cose che non si rubano. Il suo tempo non è il nostro, è radicalmente altro: sono i suoi minuti, i suoi istanti: incomprensibili, lunari, come «gli istanti del cane» che ritornano nei nastri del Krapp beckettiano. La «ladra di frutta» (donna, ma forse anche ape, farfalla, calabrone, cinghiale, faina) ha, sì, una storia: una madre scomparsa ritorna, presente nel suo non-essere, sulla scena, sempre evocata, ma tutto questo è come un odore pungente e strano, non c'è familiarità, non c'è empatia.

Leggere Handke - compreso questo Handke - significa compiere un salutare viaggio fuori dalla prigione dell'empatia, fuori dall'ambiguità della corrispondenza («mi corrisponde», «non mi corrisponde») e dalla nebbia delle emozioni. Prendetelo in mano, vincete la salutare repulsione iniziale, amate quella repulsione, segnale di una salutare difficoltà. Perché la verità è difficile, l'essere è difficile, la bellezza è difficile. La facilità - dice un grande matematico - è il diavolo. Be', al diavolo il diavolo. Viva Peter Handke - anche quando non ci piace.

O seguiamo quelli come lui o dovremo accontentarci dell'ennesimo capolavoro imperdibile.

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