Èmile Deroy fece la fine di tutti gli artisti parigini di quel tempo. «Morì triste e solo, rimpianto poco dai suoi colleghi, di cui non si curava molto e ai quali faceva paura», alla veneranda età di 26 anni. Gustando «povertà e isolamento» al posto dell'agognata fama. Eppure, fece in tempo a fare due cose decisive. Intanto, il ritratto di Charles Baudelaire, nel 1844. L'infernal poeta ha i capelli folti, la barbetta da moschettiere e sfida lo spettatore con una posa da dandy. Ha 23 anni, è già noto in città per la vita dissipata e il gusto morboso per il lusso, è il solo ritratto da giovane che possediamo di Baudelaire. L'anno dopo che è poi l'anno prima di morire Deroy fa un'altra cosa decisiva. Presenta Baudelaire a Charles Asselineau. Sono davanti al Louvre, Asselineau non sa ancora cosa fare della sua vita, sa solo che ama i libri e i poeti. Il poeta «indossava quell'abito nero che avrebbe portato a lungo: il panciotto lunghissimo, il frac a coda di rondine, i pantaloni stretti e un cappotto a tunica di bigello di cui sembrava avere l'esclusiva». Quel giorno avrebbero dovuto recensire una mostra. Baudelaire gioca a stupire il nuovo amico dal «taglio degli occhi leggermente a mandorla, lo sguardo felino, voluttuoso, penetrante, i tratti fini e delicati». Lo porta da un mercante di vini, ordina un buon bianco, vi intinge i biscotti, fuma la pipa. Bestemmia. Il nuovo amico non si scompone. Chissà se Baudelaire sospettava, quel giorno, che il gentile, posato, assennato, servile Charles Asselineau, avrebbe declamato, il 2 settembre del 1867, a Montparnasse, il discorso funebre sulla sua tomba. Da lassù, dal vertiginoso pulpito che dava sulla morte di Baudelaire, Asselineau capì quale fosse il proprio destino: riscattare la memoria di Baudelaire, «il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio» (questo è Arthur Rimbaud, che comunque ne deplorava «la forma, così vantata in lui, così meschina»). Niente puttane, niente assenzio, niente vita assillata dai debiti e assediata dalla noia (a proposito, altro che spleen, «Baudelaire era uno di quei rari uomini con cui non si conosce mai la noia»). «Si è parlato troppo della leggenda di Charles Baudelaire, senza pensare che tale leggenda non era altro che il riflesso del suo disprezzo per la stupidità e la mediocrità boriosa», urla lui, il devoto Asselineau ai quattro spettrali venti del cimitero di Parigi.
Per far questo, Asselineau si propone un compito: redigere la biografia di Baudelaire, «la biografia di un genio e di uno Spirito», astenendosi «accuratamente dall'aneddoto, non volendo finire in pasto ai giornali di second'ordine», stando nel cauto recinto «del rispetto e della discrezione». La biografia viene pubblicata in fretta, due anni dopo la morte di Baudelaire (e ora, curata da Massimo Carloni, vede luce per la prima volta in Italia come Charles Baudelaire. La vita, l'opera, il genio per l'editore Bietti). «Si vede il dolce Asselineau/ Accanto allo scontroso Baudelaire», lo sfotteva Théodore de Banville. «Il dolce Asselineau» mise un po' di miele nella vita torbida del poeta, fece come Bonaventura da Bagnoregio che stilizzò la vita del rude, feroce, violento Frate Francesco in quella del fraticello che convertiva i lupi. «Il dolce Asselineau», sostituendo l'assenzio con il succo di more, compilò l'agiografia di San Carlo Baudelaire patrono della Poesia. Eppure, Asselineau, «narratore di second'ordine, troppo umile e ragionevole, d'altronde, per lanciarsi nel lirismo geometrico del verso», amico dei poeti «nella buona come nella cattiva sorte, il consigliere, l'angelo custode della loro opera», condivise con Baudelaire, negli anni speciali della loro amicizia (che scocca, decisamente, dal 1850), la povertà, i furori, gli afrori della malasorte: «Senza il becco d'un quattrino, si ritrovavano a rovistare nell'armadio di Asselineau alla ricerca di qualche oggetto usato da rivendere o impegnare. Ogni volta che bussava alla sua porta, Baudelaire la trovava sempre aperta anche di notte, quando vi cercava rifugio per sottrarsi alle grinfie degli immancabili creditori» (così Carloni).
Ma agli occhi dell'amico la vita di Baudelaire è la sequela di un figlioccio degli dèi: talento precocissimo («fu prematuramente padrone del suo stile e del suo intelletto»), dotato di una intelligenza superiore («parafrasando il suo assioma, si può dire: non si dà un buon artista senza un buon intelletto e un sentimento adeguati; gli imbecilli non hanno mai fatto nulla di buono») ed effervescente («esercitava il proprio intelletto tramite la contraddizione, in una ginnastica perpetua»), il poeta maledetto era un geometra della correzione di bozze («un errore di stampa lo faceva infuriare e turbava il suo sonno. Ogni bozza imperfetta era rispedita in tipografia con cancellature e sottolineature, gravate a margine da moniti imperativi, verbosi rimproveri vergati da una mano furibonda e accentuati da punti esclamativi»), una specie di bonario benefattore dell'umanità («quando, alla fine della giornata, scendeva lungo il boulevard, le mani erano tese al suo passaggio, e lui le stringeva tutte, misurando la sua garbata cortesia a seconda dell'abitudine o della familiarità»). Per questo, il processo intentato per oscenità a I fiori del male, una sorta di lato B dei francescani Fioretti, lo colpì alle spalle, «era rimasto sorpreso di aver trovato così poca intelligenza e buona fede presso certi giudici della stampa».
A rompere la liturgica icona sbozzata dall'amico, tuttavia, provvide lo stesso Baudelaire, che il 20 febbraio del 1859 scrive al virgineo Asselineau: «Cronaca locale: da alcuni operai che lavorano al giardino ho saputo che, tempo fa, la moglie del sindaco è stata sorpresa mentre si faceva scopare in un confessionale. Mi è stato riferito mentre chiedevo come mai la chiesa di Santa Caterina fosse chiusa al di fuori dell'orario delle funzioni. Pare che il curato abbia preso precauzioni contro il sacrilegio. Da allora, il sindaco è costretto a cancellare le corna che gli disegnano sulla porta. Quanto al curato, che tutti qui considerano un brav'uomo, è una persona quasi notevole, e persino erudita». Straordinario il modo sinuoso in cui dal male Baudelaire sa trarre i fiori. Ma la fede nel santissimo poeta non s'incrinò e Asselineau assolve la sua agiografica biografia fino in fondo. Con l'approssimarsi della morte si esplicitano le virtù del poeta che fu maledetto, che «si spense dolcemente e senza sofferenza apparente», come i santi.
Quanto ad Asselineau, l'angelico biografo di Baudelaire morirà pochi anni dopo, il 25 luglio del 1874. Amava i libri più degli uomini, per questo, nel 1871, allo scoppio della Comune, rischiò la vita per salvare i tomi della Biblioteca Mazarine, in cui lavorava, dalle orde dei rivoltosi. Morti tutti i suoi amici, Baudelaire, Sainte-Beuve, Gautier, non restò anche a lui che morire. Non prima di aver dato giudiziose disposizioni per vendere la sua biblioteca.
«Sono disgustato da Parigi, mi annoio, non trovo più nessuno con cui parlare, e forse è preferibile la solitudine nel deserto che tra la folla», scrive a Poulet-Malassis. Baudelaire era stato sepolto soltanto quattro giorni prima. Parevano quattromila anni, quattrocento generazioni prima. Nulla, da allora, sarà più lo stesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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