La storia della poesia moderna comincia con una sonora incazzatura. E con la relativa punizione. Diplomato con un calcio nel didietro dal Collège Louis le Grand, Charles Baudelaire s'iscrive a giurisprudenza per tranquillizzare mamma Caroline. Alle aule accademiche, il giovanotto preferisce i bar e i bordelli, va a braccetto con Gérard de Nerval, spende un mucchio di quattrini, se la fa con una prostituta ebrea di nome Sara. La mamma, che aveva svogliatamente sotterrato il marito, di trentaquattro anni più vecchio di lei, nel 1827, quando Charles era un baby di sei anni, e l'anno dopo s'era accoppiata con Jacques Aupick, si lagna. Aupick, generale di brigata in carriera, non può ammettere uno scapestrato in famiglia. Durante una canonica lite, Charles cerca di accoppare il patrigno. Di contro, Aupick piglia Baudelaire per le orecchie e nel giugno del 1841 lo imbarca sul Paquebot-des-Mers-du-Sud, a Bordeaux. Destinazione: Calcutta.
La famiglia spera che l'India porti buone illuminazioni e sano giudizio a Baudelaire. Il viaggio coercitivo sarà fondamentale per le sorti della poesia europea. Baudelaire in India non approderà mai. «Chiuso in se stesso, cercava di estraniarsi leggendo... tormentato dal mal di mare, il dandy si faceva calare in una scialuppa appesa alla fiancata, dove trovava sollievo solo esponendo il petto al sole fino a scottarsi gravemente» (Giuseppe Scaraffia). La nave fa scalo alle Mauritius. È settembre, il poeta frequenta una coppia francese, gli Autard. S'invaghisce della moglie di Autard, per cui compila dei versi, strologando accoppiamenti selvaggi. Ma la nostalgia di Parigi è più potente della foia sessuale. Il capitano capisce che quel tipo strambo potrebbe farla finita, falciato dalla depressione: lo imbarca sulla Alcide e a fine anno, dopo una manciata di mesi, Baudelaire torna a casa, in Francia. Ma non è più lo stesso.
L'Oriente intuito e mai esplorato è un detonatore lirico per Baudelaire, il James Cook delle tenebre, il Magellano che ha sondato gli interstizi della perversione umana. Secondo alcuni critici la maggior parte delle poesie confluite nei Fiori del male, pubblici, come si sa, nel 1857, sono scritte poco dopo il ritorno dalla crociera, fallimentare («già nel 1843-1844 la maggior parte dei componimenti stampati nel volume I fiori del male era completa. Fu prematuramente padrone del suo stile e del suo intelletto», scrive Charles Asselineau nella biografia agiografica dedicata all'amico poeta). Di certo, le pulsioni esotiche, il tema del Voyage (con quel valzer di versi programmatico: «ma i veri viaggiatori partono per partire/ e basta: cuori lievi simili a palloncini/ che solo il caso muove eternamente»), il voluttuoso precipizio verso altri mondi, esteriori - i bassifondi di Parigi, le bassezze delle periferie - interiori, provocati dall'abuso di stupefacenti (i «paradisi artificiali»), provengono da lì, dalla gita abortita verso l'India. «La Poesia è quel che c'è di più reale: essa è completamente vera soltanto in un altro mondo», scrive il poeta, già alla ricerca di un hypocrite lecteur, di un lettore complice («simile» e «fratello»), di un adepto che comprenda i fuochi dell'artificio e accetti la conversione alla menzogna. Leggere poesia non è mai diletto, è delitto.
Il ritorno a Parigi procura a Baudelaire due cose. L'ispirazione poetica. E Jeanne Duval, l'amante creola, Musa vampira e ammazzauomini, da cui si beccò la sifilide. Ad ogni modo, Baudelaire non si dimenticò dello sgarbo rapace del patrigno, che si era premurato di chiudergli i rubinetti finanziari dopo che il poeta s'era scolato l'eredità in belle scarpe, belle donne e poderose sbronze. Nel 1848 il poeta svetta sulle barricate, durante le insurrezioni antimonarchiche. Da una parte, perché la rivoluzione, esteticamente, gli garba (scriverà, con cipiglio cinico, «il 1848 fu divertente perché ognuno vi fabbricava utopie come castelli in aria»). Dall'altra perché vuole uccidere il generale Aupick, il patrigno, impegnato con l'esercito ad arginare le folle. Quanto al resto, l'esistenza di Baudelaire, i veri o presunti suicidi, le stravaganze studiate a tavolino, la retorica dell'arte come vita e della vita come arte (Asselineau: «La vita di Baudelaire merita d'essere scritta, perché è il commentario e il complemento della sua opera»), è consustanziale ai Fiori del male. «Questo libro è un ospedale spalancato a tutte le demenze dello spirito», scriveva Gustave Bourdin il 5 luglio del 1857, sulla prima pagina de Le Figaro - quando le polemiche letterarie erano degne della prima pagina dei quotidiani - riproposta in questi giorni come omaggio ai 150 anni dalla morte del poeta e ai 160 anni dalla pubblicazione del suo capolavoro.
In Francia la critica - il numero speciale di Le Point e di Lire, ad esempio - ricama ancora sulla vita eccessiva ed eccezionale del poeta («chi è stato davvero?», titolano, e cosa c'importa...); in Italia, dove Baudelaire è stato tradotto presto - la prima edizione italiana è del 1893, per Sonzogno - e bene, spesso dai poeti - da Giovanni Caproni, Attilio Bertolucci, Gesualdo Bufalino, Mario Luzi, Davide Rondoni, ma soprattutto da Giovanni Raboni, il quale, «convinto che il compito di un traduttore di poesia sia un compito infinito», ha rivisto nell'arco di cinque edizioni, dal 1973 al 1998, la sua versione di Baudelaire - l'omaggio più bello, in attesa di un'edizione delle opere davvero completa, viene dal numero monografico de la Biblioteca di via Senato, uno «Speciale 150º Baudelaire» (sfiziosi i testi di Scaraffia e di Antonio Castronuovo sui legatori dei Fiori del male). Per Arthur Rimbaud «Baudelaire è il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio»; secondo Thomas S. Eliot, che usò e abusò Charles nella sua opera, nonostante certe riserve (il «satanismo di maniera», «le sue prostitute, i suoi mulatti, ebrei, serpenti, gatti, cadaveri, un congegno che per più di un aspetto non ha resistito all'usura del tempo»), «il suo linguaggio poetico è la realtà più vicina a un completo rinnovamento che ci sia dato di sperimentare».
Il crudo insegnamento di Baudelaire è che la poesia reclama sempre la dissipazione di sé e del sé, uno spreco australe: la poesia cannibalizza il poeta, la forma d'arte è migliore, quando è grande, di una creatura vivente. Il poeta eternato da Nadar, che sfidava la macchina con le mani in tasca, la fronte ampia, lo sguardo da aristocratico trapper degli abissi, già dal 1865 è malato, perde i capelli, i denti, è torturato dai debiti. L'anno dopo lo coglie un ictus che gli paralizza parte del corpo. Non parla. La sequela verso la morte, che accade il 31 agosto del 1867, è straziante. «Il trito canovaccio del destino» insiste ferocemente sul corpo del poeta.
La Morte indugia su chi l'ha vinta. Nella stele che ne ricorda la tomba, a Montparnasse, il nome di Charles, «bellissimo figlio», così gorgheggia il marmo, sovrasta quello della madre, ma è schiacciato da quello dell'odiato patrigno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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