Cultura e Spettacoli

"I giovani poeti? Narcisi che già vogliono il canone e il potere"

Un maestro della poesia contemporanea narra forme, linguaggi e totem della lirica italiana

"I giovani poeti? Narcisi che già vogliono il canone e il potere"

La poesia è cagnara, catastrofe scatenata di sciacalli che lottano per un posto al sole nel canone, con machiavellica spietatezza, prendendosi a morsi più che a versi. «Guerra personale senza quartiere, attacco a tutto campo», la definisce Franco Buffoni nel primo testo, il più folgorante, «Storie di canone», del suo Gli strumenti della poesia. Manuale e diario di poetica (Interlinea, pagg. 224, euro 14). Facendo nomi e cognomi («Se Sanguineti e Raboni non avessero usato il loro potere accademico e giornalistico nel primo caso; giornalistico ed editoriale nel secondo per promuovere la propria immagine di autori costruendosi un canone ad hoc, il dibattito sarebbe stato più onesto e più chiaro»), sfottendo i tanti «che scrivono versi in proprio», «posseggono cinismo, disinvoltura e ambizione», a cui poco importa l'eccellenza lirica ma «il canone, il potere, la costituzione di un baluardo inattaccabile».

Certo, precipitiamo in un contraddittorio e in una contraddizione senza fine: ogni poeta fonda una poetica, esclusiva, cioè che esclude tutti gli altri. Ogni poeta, per estro, edifica un canone.

Anche Franco Buffoni (nato alla poesia quarant'anni fa proprio sotto gli auspici di Giovanni Raboni), poeta più che riconosciuto, attraverso strumenti come i Quaderni di Poesia italiana contemporanea, gli studi, le traduzioni (da John Keats a Seamus Heaney, da Byron a Kipling e Oscar Wilde e David Gascoyne), la potente presenza editoriale, ha fatto il proprio canone, le proprie scelte. Solo che Franco Buffoni lo ammette, si mette in discussione, si guarda allo specchio per poi, quello specchio, pigliarlo a pugni. E ricomporlo. Dopo tutto, l'immagine della poesia come campo di battaglia, giungla fitta di serpi più che pacifico Eden, pallosa Arcadia, non è male.

In modo generico, subito, Lei si riferisce al paesaggio della poesia odierna, ai poeti di oggi scrivendo che «l'unica cosa che interessa loro è il canone, il potere». A chi sta parlando? E lei a cosa mira, scrivendo?

«Con il trentennale lavoro sui Quaderni di Poesia italiana e nell'ultimo decennio con la collana Lyra Giovani per Interlinea credo di avere sempre dimostrato interesse e rispetto per la poesia dei più giovani. Mi dispiace quando noto che a trent'anni alcuni ne fanno già una questione di canone, di potere, inevitabilmente inaridendo la propria vena. In quei casi consiglio sempre escursioni in montagna, in alta quota: tornare in montagna per rifarsi una timidezza. Personalmente, scrivendo, ho sempre e solo mirato ad esprimere al meglio la mia poetica».

Si sente canonico, canonizzato, in un qualche canone? Qual è il suo libro migliore, perché?

«Se guardo oggettivamente ai riscontri critici, i libri miei più spesso citati sono Il profilo del Rosa e Jucci, usciti entrambi per Mondadori rispettivamente nel 2001 e nel 2014. Quanto al canone, lo definisce l'estetica, ma a posteriori, molto a posteriori, dopo aver saggiamente analizzato il dialogo tra critica e poetica».

Chi Le è stato maestro? Qual è il libro che più L'ha segnata?

«Giovanni Raboni, che mi pubblicò su Paragone quando ero assolutamente inedito e poi nella Fenice di Guanda sia come poeta sia come traduttore di Keats. Il libro italiano che da giovane mi segnò maggiormente fu Diario di Algeria di Vittorio Sereni, che mi permise di comprendere anche i silenzi e le asperità di mio padre, nato nel 1914, e come Sereni tenente di fanteria».

Quanto c'è di narciso nel poeta? E di sacrificio?

«Come ogni artigiano sei contento quando il lavoro ti riesce bene: ti senti momentaneamente appagato. Ma subito appare il nuovo lavoro, la nuova sfida. Magari ti concedi anche una gita in alta quota, ma poi torni subito alla disciplina della parola, dell'immagine. Sacrifici? Senz'altro sì, ma non sapresti vivere in un altro modo».

Lei scrive: «L'omosessualità diventa normale quando è normata. In Italia è ben lungi dall'esserlo. Non mi è chiaro il legame tra movimento gay e poesia, né se esista una particolare poesia che sviluppi tematiche gay o meno. Mi spieghi.

«In Italia, su questo argomento, sembra di vivere in un universo parallelo rispetto al resto del mondo occidentale. Perché non è mai stata presa sul serio la dichiarazione di trent'anni fa (17 maggio 1990) dell'Organizzazione Mondiale della Sanità: l'omosessualità è una variante naturale dell'umana sessualità. Quindi: nessuna malattia e di conseguenza nessuna cura o terapia riparativa, nessuno stigma. Come ha scritto Goffredo Parise: Ogni uomo, uno scrittore, un poeta, un artista è quello che è la sua sessualità».

Estragga un verso emblematico dalla sua opera. E un verso che avrebbe voluto scrivere, di un altro poeta.

«Per Petrarca Ticino era Tesín, che sta nella Linea del cielo. Non Tesin, Po, Varo, Arno, Adige et Tebro: Petrarca».

Qual è, nel fatidico canone, il poeta italiano più sopravvalutato e quello che meriterebbe maggiore attenzione?

«Credo che meriterebbe maggiore attenzione Clemente Rebora rispetto all'assoluta preminenza di Montale».

Perché, in fondo, scrive poesie?

«Perché posso raccontare e raccontarmi, volgendomi altrove in senso etimologico, proprio dis-vertendomi ed essere preso persino sul serio».

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