Cultura e Spettacoli

I Litfiba all'"Ultimo girone": un tour per l'addio ai fan

Dopo 40 anni di rock la band di Piero Pelù annuncia il ritiro e una serie di concerti, a partire dal 26 aprile

I Litfiba all'"Ultimo girone": un tour per l'addio ai fan

Giralo come vuoi, il simbolo dei Litfiba, ma si sappia che spiega tutto. Il cuore rosso con le corna (la band che difende l'amore e la libertà ma conserva una ribellione sulfurea tutta sua) o le corna con il cuore (ragazzacci molto rock, che non te le mandano a dire, epperò in fondo sono buoni come il pane). Dipende dai punti di vista. Quello che oggi sfoggiano Piero Pelù e Ghigo Renzulli, la coppia anima dei Litfiba, è il punto di vista migliore di tutti: quello a distanza. «Da lontano vedi tutto meglio dice Pelù - e noi guardiamo da quarant'anni di distanza. Anzi, quaranta più Iva. Perché ci sono questi ultimi due maledetti e strani anni: quelli sono l'Iva».

Chissà se la pandemia ha qualcosa a che fare con la scelta dei Litfiba perché, sì, questi due maturi toscanacci ipnotizzati dallo stesso idolo (la musica) e sempre pronti a litigare («se ci date l'occasione, noi si litiga anche per lo zucchero nel caffè: a noi gli Oasis ci fanno il solletico») hanno deciso di dire basta: il 2022 sarà l'anno del capolinea. Loro, che da sempre hanno giocato col Diablo, lo chiamano furbescamente «L'Ultimo Girone». È questo il titolo del tour d'addio che la rock band fiorentina annuncia da Milano, e le prime dieci date sono lì, nero su bianco: si parte il 26 aprile da Padova e nel giro di un mese si toccano le grandi città, Napoli, Roma, Firenze e Milano (biglietti disponibili da ieri).

«Rimpianti? Quelli normali, che hanno tutte le persone quando mettono su qualche anno continua Pelù che, dei due, ha pensiero e lingua più agili, non a caso di lavoro fa il front-man e esibisce un giubbotto in pelle rosso fuoco - Ma se siamo giunti a questa decisione è perché ci sentiamo super appagati. Quando cominciammo, nei primi anni Ottanta, davvero non immaginavamo la strada che avremmo fatto. Non ci vedevamo più in là di qualche anno. Eravamo cinque raccattati, come si dice a Firenze, che provavano in cantina: piano piano abbiamo creato il nostro sound e una storia da raccontare». La strada è quella lastricata di successi e cifre, che marchiano i Litfiba come una delle band simbolo del rock italiano: dieci milioni di copie di dischi («ora la fila ai negozi non la si fa più per i dischi in uscita, ma per gli iPhone»), tredici album in studio, sei dal vivo, migliaia di concerti in Italia, in Europa («cominciammo dalla Francia quando in Italia ci conoscevano solo pochi fan agguerriti e ancor meno giornalisti»), perfino in Australia.

La storia è quella della libertà, che talvolta ha fatto girare le scatole a qualcuno: «I politici degli anni Novanta, ad esempio sorride beffardo Pelù Loro non ci sono più, noi siamo ancora qui. Negli anni ci hanno accusato di vilipendio alla bandiera, istigazione alla diserzione. Quando misi il profilattico sul microfono di Vincenzo Mollica venne giù il mondo: ma erano gli anni dell'Aids, in Africa morivano migliaia di persone e in tutto il mondo, meno che in Italia, si aveva una chiara percezione di cosa stesse succedendo».

In fondo, quello era il mestiere del rock: spettinare l'ambiente circostante. Se però si chiede a Pelù e Renzulli dove stia andando oggi il rock, se in museo o di nuovo in classifica grazie a exploit come quello dei Maneskin, i due armonizzano la risposta: «Non ci sono solo i Maneskin: il problema per le rock band attuali è la mancanza dei club, che stanno morendo anche a causa della pandemia. Teatri di prosa e d'opera hanno ricevuto sovvenzioni, i club no. A Firenze, la mitica Flog non riaprirà. Dove suonano questi ragazzi? La gavetta, questa parola bistrattata, se la farebbero anche. Che poi, se parti dalla cantina, suoni nei club e anche arrivi a un talent, se non tradisci la tua musica, non c'è niente di male».

Ad accompagnare i Litfiba sul palco nell'ultimo tour insieme a Luca Martelli alla batteria, Fabrizio Simoncioni alle tastiere e Dado Neri al basso - ci sono «almeno settanta canzoni da far ruotare in scaletta» e i numerosi ricordi: «Ricordi nati da curiosità e incoscienza, da sempre la nostra benzina. Come quando fummo circondati dai Vopos in Germania Est a causa di una foto con sfondo militare proibito, o quando andammo a suonare in Russia nel 1989, c'era anche Giovanni Lindo Ferretti con i suoi Cccp: fu lì che cominciò ad avere crisi di coscienza. Decollammo con un Tupolev scassato insieme a cinquanta membri del Balletto Ucraino che, al momento di staccarci da terra, si fecero tutti il segno della croce».

Ora è il momento giusto per dirsi addio, «anche se resteremo sempre musicisti, perché questo abbiamo imparato a fare. E poi Robert Plant e Jimmy Page fecero due album a loro nome, senza usare quello dei Led Zeppelin».

Ecco, appunto, chissà.

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