I reportage di Henry James, viaggiatore incontentabile

Al romanziere, studioso di arte, non sfugge niente E dà giudizi implacabili sulle nostre città

I reportage di Henry James, viaggiatore incontentabile

Molto conosciuto e citato il Grand Tour in Italia degli scrittori europei del Settecento, da Stendhal a Montesquieu, da Byron a Goethe; meno quello del giovane Henry James, che pur di famiglia abbiente, con i reportage dei suoi viaggi ci si manteneva, a partire dal 1870, molto prima di scrivere Giro di vite o Ritratto di Signora o le altre decine di romanzi e racconti di uno degli scrittori americani (naturalizzato inglese) più prolifici e colti di sempre. Appena pubblicati per Bompiani nel volume In viaggio (pagg. 314, euro 15), si va dalle cascate del Niagara a Parigi, da Venezia a Strasburgo, dalla Scozia a Francoforte. Ma sono dedicate all'Italia le pagine più belle, nel bene e nel male.

Erudito, raffinato studioso di arte e architettura, a James non sfugge un capitello né un affresco, commenta Bellini, Tiziano e Tintoretto meglio di Roberto Longhi, ma le parti più divertenti sono le critiche sarcastiche a cultura e società disseminate nel suo diario del perfetto viaggiatore. Pisa, per esempio, ha un fascino di ordine superiore, «benché offuscato dalla famosa stortura del campanile». Non permette di rilassarti, come invece il resto del centro storico, «con quell'aria tiepida e soporifera che per le persone che soffrono di nervi è come un sedativo». Pisa è come il Valium, in sostanza, sebbene deturpata da una torre sbilenca. «Una città noiosa per viverci, ma il luogo ideale per attenderci la morte».

Va molto peggio a Livorno, che «non possiede una sola chiesa degna di attenzione, né un palazzo municipale, né un museo, e, unica in Italia, può rivendicare di essere l'unica città mai raffigurata in un dipinto». I granduchi sono raffigurati in monumenti nella piazza più importante, ma James non legge neppure le scritte di chi sono, perché «in qualità di patres patriae avrebbero dovuto disporre che quella piazza color ocra, grande e spoglia, fosse un nonnulla meno brutta».

A Firenze ammira la bellezza del campanile di Giotto, e si chiede stupito come abbia potuto farlo così moderno e mirabile «il pittore di così tanti piccoli affreschi cupi e arcaici». È tuttavia incantato dalla città, perfetta anche laddove è trascurata, come in molte case sul Lungarno, perché comunque sia «non è particolarmente ricca di quel pittoresco cencioso il pittoresco della povertà di cui si riempiono i nostri occhi indolenti a Roma e Napoli». Roma e Napoli, insomma, hanno un'estetica stracciona.

Anche perché Roma, già nel 1873, anno del reportage di James, era piena di turisti. «Si potrebbe dire senza essere ingiusti che lo stato d'animo di molti stranieri a Roma è di profonda impazienza per l'attimo in cui tutti gli altri stranieri se ne saranno andati». Non si riesce a godersi la città eterna, perché eternamente disturbata. «Non soltanto San Pietro, il Vaticano, il Palatino risuonano perennemente di voci inglesi; è la sensazione generale e opprimente che la città dell'anima sia divenuta una mostruosa combinazione di località termale e negozio di curiosità; che la sua vita più intensa sia la vita dei turisti che tirano sul prezzo di false calcografie e che sbadigliano mentre visitano palazzi e templi». Chissà cosa direbbe oggi, tra giapponesi, selfie-stick, mendicanti africani a ogni angolo e venditori indiani di aggeggi luminosi volanti.

Come se non bastasse, James si è trovato perfino di fronte una vociante manifestazione di grillini ante litteram che attraversavano via del Corso gridando «Abbasso il ministero!». Non che a Milano non abbia trovato difetti, perché non gli sembra una città italiana. Rispetto all'Europa, «piuttosto l'ultima delle capitali del Nord che la prima del Sud». Anche sul Duomo ha qualcosa da ridire: «Non è interessante, non è logico, non è nemmeno, per alcune menti, maestosamente bello; però è enormemente curioso, superbamente ricco». Ma il pittoresco (cercavano tutti il pittoresco, all'epoca, incluso James) lo si trova sotto la chiesa, dove un prete mostra le reliquie di san Carlo Borromeo, per cinque franchi, alzando una saracinesca con una manovella, «proprio come la mattina si vede fare al garzone con la vetrina del padrone». James, alla comparsa del cadavere nero, mummificato, ornato di gioielli, riflette che «qualsiasi cosa si possa pensare riguardo al declino della chiesa, non posso esimermi dal pensare che farà sempre una figura tollerabile nel mondo fintanto che conserverà questo grande capitale di cianfrusaglie. Insomma, mi vedo dopotutto costretto a ammettere, nonostante la saracinesca e le profane arti espositive del sagrestano, che la maestà della chiesa ha salvato la situazione, o l'ha resa, almeno, ridicola in modo sublime».

Henry James, per la cronaca, arrivò in Italia passando per la galleria del Moncenisio, non per la galleria del San Gottardo, ancora in costruzione, ma provò comunque l'ebrezza della velocità, «il forte sapore del futuro».

Anche nell'Ottocento c'era chi protestava contro i lavori, ma James era favorevole: «La galleria non è certamente un oggetto poetico, ma non c'è perfezione senza bellezza; e nel misurare la lunga linea frastagliata della piramide che ne forma la base, dobbiamo ammettere che è la perfezione di una scorciatoia». Vaglielo a spiegare, ai No-Tav.

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