«I ruggenti anni Venti riletti col 3D e l'hip hop»

In un'intervista, rilasciata al mensile "Ciak", Baz Lurhmann spiega: "Ho voluto rifare “Il Grande Gatsby” perché è più attuale che mai"

«I ruggenti anni Venti riletti col 3D e l'hip hop»

Gli occhi ubriachi di immagini e colori, il corpo ebbro di ritmo. Il grande Gatsby - in 3D e a tempo di hip hop - secondo Baz Luhrmann. Quasi in contemporanea con l'apertura del Festival di Cannes, arriva finalmente nelle nostre sale la versione di Baz, fragorosa e stereoscopica, del celebre romanzo di Francis Scott Fitzgerald pubblicato per la prima volta il 10 aprile del 1925. Arriva in sala e si distingue abissalmente dai vari e calligrafici adattamenti cinematografici già realizzati in passato, fra i quali l'edizione di Elliott Nugent e quella più celebre di Jack Clayton con Robert Redford a vestire i panni stilosissimi di Gatsby. Il cuore del racconto è fedele all'originale.

Nella New York degli Anni Venti, Nick Carraway (Tobey Maguire), giovane del Midwest, diventa amico del vicino di casa, il misterioso e ricchissimo Jay Gatsby (Leonardo DiCaprio), che organizza feste leggendarie per l'alta borghesia, alle quali non partecipa e che osserva solo da lontano. Gatsby è innamorato da tempo della cugina di Nick, Daisy (Carey Mulligan), infelicemente sposata con Tom (Joel Edgerton), che la tradisce con Myrtle (Isla Fisher). Il tutto ritmato dalla musica della superstar del rap Jay-Z.

La visione del Gatsby luhrmanniano è un'esperienza fradicia di colori, ipercinematografica, evocativa, barocca e sgargiante. La quintessenza dell'arte postmoderna dell'autore australiano: gli Anni Venti mescolati con l'oggi, dove il ritmo è, appunto, hip hop, che il regista definisce come «il jazz contemporaneo». Passato e presente, i costumi da Oscar di Catherine Martin (moglie del regista), le zebre di gomma in piscina («è un dettaglio vero, rubato alla Storia»), immagini sovrapposte di epoche difformi, generi diversi - racconto di formazione, mélo, musical - e suoni multiformi che convivono in perfetta (dis)armonia. L'estetica incontenibile e camaleontica del crossover al suo meglio e in 3D. È la messinscena «à la Luhrmann» delle pagine del grande scrittore americano che, negli Anni Venti e Trenta, con i suoi romanzi, i racconti e gli articoli seppe narrare e mettere a nudo l'ipocrisia dell'alta borghesia americana. La dolce vita dell'epoca, fatta di feste faraoniche, menzogne, musica jazz, balli, vuoto esistenziale, tradimenti e alcol a fiumi, nonostante il proibizionismo. Il tutto a ridosso della crisi che nel '29 mise in ginocchio l'America. Tra corsi e ricorsi temporali, oggi, nel mezzo della crisi mondiale, la storia di Fitzgerald sembra più attuale che mai. La bolla dorata sta per esplodere ancora, come ci racconta il regista al telefono da Los Angeles.

Quando e perché ha scelto proprio «Il grande Gatsby» di Fitzgerald?
«L'ho riletto per la seconda volta nella mia vita circa undici anni fa. Viaggiavo in Siberia, su un treno della linea Trans-Siberiana, dopo le riprese di Moulin Rouge!. È stato folgorante: si tratta di un romanzo che resta potente e vero negli anni. L'ipocrisia umana permane nel tempo e Fitzgerald l'ha raccontata forse meglio di tutti. Ho studiato lo scrittore americano, la sua vita e la sua opera omnia per più di quattro anni, il doppio di quanto non avessi dedicato a Shakespeare prima di Romeo + Giulietta. Mi sono anche confrontato con vari esperti, accademici e dotti professori universitari, su ogni minimo dettaglio».

Però si è preso diverse libertà nel film: dal 3D alla musica hip hop.
«Certo. La critica principale da parte dei fitzgeraldiani duri e puri verterà su tre punti: l'ho girato in 3D, a ritmo di rap - anziché jazz - e ho tagliato diversi passi del romanzo. Se io e il mio cosceneggiatore Craig Pearce avessimo lasciato tutto il materiale del libro, il film durerebbe sette ore, come certi adattamenti teatrali di Broadway. Quello che mi interessava era soprattutto riuscire a trovare un ritmo cinematografico giusto, per raccontare di nuovo la storia di Gatsby attraverso il mio sguardo. Il ritmo l'ho trovato proprio grazie all'hip hop e alla colonna sonora di Jay Z. Un verso della sua canzone 100$ Bills riprende proprio un dialogo di Fitzgerald ed è rivelatorio».
Come le è venuto in mente di affidare la colonna sonora a una superstar dell'hip hop come Jay-Z?
«In passato ho lavorato con sua moglie Beyoncé (per l'omaggio ai musical alla Notte degli Oscar 2009, nda), ma Jay non lo avevo nemmeno incontrato. Una sera, mentre ero a New York, mi dicono che vuole incontrarmi e allora lo raggiungo al Mercer Hotel. Entro in una suite e c'è quest'uomo imponente in mezzo a un paio di persone. Ha il microfono in pugno e spara rime come: «Lies on the lips of a priest/Thanksgiving disguised as a feast...». (Bugie sulle labbra di un prete/Giorno del Ringraziamento travestito da festa, nda). Stava registrando No Church In the Wild (pezzo capolavoro del genere, presente nel trailer e in colonna sonora del film, nda) per il suo disco Watch the Throne, realizzato in coppia con il collega Kanye West. Gli ho fatto vedere una breve scena del mio Gatsby, spiegandogli che avrei voluto musicarlo con i suoni contemporanei e “urbani" propri del suo stile. Ha accettato subito».

Lo stereotipo dei rapper è che siano musicisti con un grande ego e un brutto carattere. Mai litigato con Jay-Z?
«No, mai. Jay è davvero un'ottima persona. Abbiamo socializzato fin dal primo giorno. Ci siamo sempre confrontati civilmente sul lavoro in corso. A volte non eravamo d'accordo su alcuni dettagli, ma tutto è filato magnificamente.

Jay, fra l'altro, oltre al nome, è davvero Jay Gatsby. Beve un Martini davvero tosto, secchissimo e con uno strato di ghiaccio sopra. Mi ha insegnato come farlo dopo che io gli avevo preparato un Martini cocktail classico».

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