Cultura e Spettacoli

I vertici dei teatri italiani? Forse è il caso di mandarli (davvero) "in pensione"

Perché presidenti e dg, over 65 e spesso stranieri, restano in carica in barba alla legge Madia?

I vertici dei teatri italiani? Forse è il caso di mandarli (davvero) "in pensione"

Il mondo dei teatri pagherà cara la pandemia. La sale, difficili da adattare alle norme del distanziamento sanitario e frequentate in maggioranza da over 65, resteranno chiuse o semivuote a lungo. Molto si è già scritto sulla crisi del settore, l'urgenza di ripartire e le modalità della ripresa. Ma esiste un altro problema, anzi un nodo ingarbugliato da tempo: e speriamo che l'eccezionalità del momento sia l'occasione per tagliarlo di netto. Parliamo dei vertici, direttori e presidenti: posti chiave, prestigiosi, occupati spesso da persone in pensione, tutte dello stesso entourage, molte straniere, che escludono la generazione dei 40-50enni e gli italiani. E attenzione: non parliamo di ruoli creativi, per i quali «anzianità» significa esperienza e valore aggiunto, ma di ruoli dirigenziali e istituzionali.

Premessa. La legge Madia sul pubblico impiego (2015) è chiara: vieta a chi percepisce una pensione di occupare incarichi dirigenziali nelle strutture che rientrino all'interno del bilancio consolidato dello Stato, come i Teatri Stabili e le Fondazioni lirico sinfoniche. La situazione si trascina da tempo. Molti casi, in bilico tra legalità e opportunità, sono già stati denunciati. Ma negli ultimi mesi sono accaduti molti altri fatti. Eccoli.

L'estate scorsa il sindaco di Firenze, Dario Nardella, del Pd, presidente di diritto del Maggio Musicale Fiorentino, nomina presidente al proprio posto (la legge lo permette) Salvatore Nastasi, già vicesegretario di Palazzo Chigi al tempo di Renzi premier, figura molto potente nel mondo della cultura. Cristiano Chiarot, il sovrintendente del Maggio che non gradisce le manovre di partito, si dimette per protesta. Nastasi fa nominare nuovo sovrintendente Alexander Pereira, contestato sovrintendente della Scala, 72 anni, già in pensione (e che avrebbe preferito stare a Milano: per lui il Maggio è un declassamento). In nessun Paese europeo potrebbe avere un incarico pubblico. Da noi sì. E da lì a poco dalla prestigiosa fondazione lirico-sinfonica fiorentina se ne va anche il direttore musicale Fabio Luisi: ciò che è accaduto è «una svolta di natura politica», dichiara. Nastasi invece viene chiamato da Franceschini al ministero per i Beni culturali come Segretario generale.

Stessa operazione, incrociando le pedine senza cambiare il gioco, e umiliando i sovrintendenti italiani, dopo un paio di mesi accade a Napoli. Stephan Lissner, per dieci anni alla Scala di Milano con stipendi che sfioravano il milione l'anno, a 66 anni va in pensione per raggiunti limiti di età. In Francia non può più lavorare. Da noi sì, in barba alla legge Madia, che viene umiliata dalla stessa Sinistra che l'ha voluta. E così è nominato nuovo sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli (si è insediato il 1° aprile) al posto di Rosanna Purchia, classe 1953, che ha maturato la pensione, e dopo dieci anni non può più essere riconfermata. Lissner fortemente voluto dal sindaco De Magistris è il secondo straniero nominato. Terzo se si considera Dominique Meyer alla Scala, che si sta muovendo bene, ma ha comunque 65 anni, mentre Maria Di Freda, il direttore generale, ne ha 70 ed è alla Scala dal 1973.

Comunque, ancora un pensionato, ancora uno straniero. Tenendo fuori i sovrintendenti italiani della generazione di mezzo.

Sandro Cappelletto, sulla Stampa del 10 ottobre scorso, riferiva la battuta che gira nei corridoi ministeriali: «I pensionati italiani vanno in Portogallo per evitare di pagare le tasse sulla pensione. I sovrintendenti europei vengono in Italia per ricevere uno stipendio anche quando sono in pensione». E Piera Anna Franini proprio sul Giornale il 24 giugno scorso raccontando la guerra di successione scaligera, ricordava che quella del sovrintendente del teatro d'opera è professione da over 65 e si chiedeva come sia possibile che non si registri un cambio generazionale alla dirigenza dei teatri d'opera. Anche al Teatro Regio di Torino, dopo una difficile parentesi, è arrivato un sovrintendente straniero, il tedesco Sebastian Schwarz. Almeno è quarantenne.

Se, per via di una malintesa esterofilia che diventa il peggior provincialismo, si continuano a cercare all'estero e persino fra i pensionati i nomi per gli incarichi dirigenziali pubblici, significa che in Italia non ci sono direttori e manager culturali all'altezza?

Ancora. Lo scorso febbraio alla presidenza della Biennale di Venezia, come successore di Paolo Baratta, 80 anni, per quindici anni plenipotenziario della maggiore fondazione culturale italiana, viene nominato Roberto Cicutto, 72 anni, produttore cinematografico, già presidente dell'Istituto Luce. Figura capace, ma che la sua storia l'ha già fatta: perché non dare spazio ai cinquantenni?

A febbraio scorso, dopo 12 anni di direzione di Giorgio Ferrara, 73 anni, come nuova direttrice del Festival di Spoleto arriva Monique Veaute, madre tedesca e padre francese, moglie di Marco Causi (economista del Pd, parlamentare e vicesindaco con la giunta di Ignazio Marino): ha 69 anni e un contratto da 150mila euro l'anno di stipendio per un festival di tre settimane. Non solo: è nel Cda del Maxxi di Roma, presieduto da Giovanna Melandri, ex ministro per i Beni culturali e esponente storico del Pd. A proposito: perché il Maxxi e la Biennale debbono avere presidenti operativi stipendiati, a differenza di tutte le altre fondazioni culturali, seppure abbiano già fior di direttori ben pagati? Comunque, Monique Veaute è anche presidente del Romaeuropa Festival (finanziato con molti soldi pubblici). Si dimetterà dalla carica, in palese conflitto con la direzione di un altro festival come quello di Spoleto? E non citeremo il caso del sovrintendente del Rossini Opera Festival di Pesaro, Gianfranco Mariotti, per il quale, due anni fa, è dovuta intervenire la Corte dei Conti a sottolineare l'incompatibilità tra lo stato di pensionato e l'incarico, retribuito, che copriva. È stato sostituito da Ernesto Palacio, 74 anni, peruviano.

Avanti. Al Teatro di Roma un anno fa fu nominato direttore generale il regista Giorgio Barbero Corsetti, sempre dell'entourage di Veltroni e Zingaretti. Da qualche settimana è stato declassato a consulente artistico (con lauto compenso), non si sa per quale ragione, in un teatro con il cda in scadenza e senza un direttore generale. Anche alla Fondazione Musica per Roma, che gestisce l'Auditorium, il cda è scaduto ad autunno. È vero che la sindaca Raggi ha altri problemi, ma si tratta di due istituzioni culturali di prim'ordine che reclamano attenzione e trasparenza.

E poi, la ciliegina sulla torta. Al Piccolo Teatro di Milano tra poco, a settembre, scade Sergio Escobar, 70 anni, direttore dal 1998, dunque per 22 anni. Dal 2016 svolge il ruolo di Direttore generale (senza stipendio perché è in pensione). La legge Madia prescrive che i dirigenti di istituzioni pubbliche possano restare al loro posto dopo che sono andati in pensione soltanto per un anno ancora. Nel caso di Escobar, nel 2016, era ministro Franceschini, si fece una deroga. Su quali basi? Perché la dinamica Milano, dove il ricambio generazionale dovrebbe essere una regola praticata a tutti i livelli, accetta una simile situazione? Vedremo a settembre cosa accadrà. Magari per ragioni di emergenza sanitaria sarà ulteriormente riconfermato.

Si sa: il peggiore dei virus è il potere.

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