Partiamo dalla fine, cioè oggi. Se digitassimo la parola «diavolo» in Internet - il più potente ricettacolo che esista della cultura popolare - ci imbatteremmo in una figura prevalentemente innocua, folcloristica e stereotipata, con corna, coda, pelle rossa, denti aguzzi, zampe caprine. Una raffigurazione che tra Medioevo ed età Moderna aveva un senso, funzionale al cristianesimo, e cioè attribuire i caratteri di malvagità e pericolosità agli idoli pagani, personificazione del Male, ma che oggi è anacronistica. Annacquata. Anche banale.
Banale, pop, depotenziata dal punto di vista religioso, la figura del diavolo non è però scomparsa dal nostro immaginario. Anzi. Internet è un girone infernale: pullula di diavoletti e Satanassi che sbucano nei video, nei loghi, nei siti spirituali e in quelli commerciali. La pubblicità ne abusa, sfruttando il binomio diavolo-sesso. La musica non ha mai smesso di evocare il maligno. I videogame sono la porta degli Inferi che mette in relazione i giovani con le figure demoniache...
Del resto sono i conflitti generati dal Male a mettere in moto le grandi narrazioni. Senza il Male non c'è racconto. E l'arte - in tutte le sue forme, fra letteratura, cinema, design - non ha mai rinunciato a dare immagine al diavolo, identificandolo con quanto di negativo ci circonda. E soprattutto l'arte con la A maiuscola. Che nel corso dei secoli - dal mosaico con il Giudizio Universale di Coppo di Marcovaldo (1260-70) nel Battistero di San Giovanni a Firenze, che rappresenta in qualche modo l'archetipo artistico dell'Inferno, fino alla sedia diabolicomorfa di Gaetano Pesce in resina poliuretanica Devil Chair (2016) - ha rappresentato Satana in così tante forme da riempirci un catalogo. Come quello redatto da Demetrio Paparoni, critico e storico, il quale nel suo monumentale The Devil (24Ore Cultura, pagg. 382, euro 35) ha mappato forme, significati e metamorfosi del diavolo, da Giotto a Picasso, da Pollock a Serrano, dai tarocchi ai videogiochi. Pape Satàn, pape Satàn aleppe.
Il diavolo è tra noi. Cambia sempre travestimento, restando eternamente uguale a se stesso. Ce lo ha fatto notare lo stesso Demetrio Paparoni chiacchierando, proprio l'altro ieri, della mostra di Keith Haring About Art, appena inaugurata a Palazzo Reale, a Milano, dove c'è anche una bellissima maschera infernale. Negli anni Ottanta del '900 il diffondersi dell'Aids rimise in gioco nell'immaginario collettivo l'immagine del diavolo e dell'inferno. A distanza di oltre sei secoli dalla peste nera che nel Trecento falcidiò in Europa un terzo della popolazione, e che venne percepita come una punizione divina, tornava a diffondersi nell'immaginario collettivo l'idea della malattia come colpa, alimentata da una martellante propaganda politica e religiosa. E così, mentre l'Aids veniva avvertita come un male di cui portare il peso con vergogna e senso di colpa, artisti come Haring (o Robert Mapplethorpe con le sue scandalose fotografie) tornarono a evocare il diavolo, rifacendosi a narrazioni e iconografie antiche.
Il diavolo ci perseguita. Negli ultimi decenni si è manifestato nelle opere di Andres Serrano, di Tony Oursler, di Manuel Ocampo, di Ronald Ventura, dell'illustratore californiano Gary Baseman (avete presente il diavoletto HotChaChaCha?)... Ed è presente anche nel lavoro di artisti che vivono e lavorano in aree geografiche dove il cristianesimo ha avuto scarsa incidenza. Ed ecco gli autoritratti, grotteschi e ridenti ma con le corna, del cinese Yue Minjun. Dall'oriente con orrore.
Ecco cosa hanno in comune l'arte e il diavolo. L'una e l'altro sono l'essenza della seduzione. La prima incanta, il secondo inganna. Il tema è vecchio come il mondo, e come il diavolo. Nell'arte del passato troviamo numerose rappresentazioni dell'inganno attuato dal diavolo per portare avanti il proprio progetto malefico. Si pensi al ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti Allegoria ed effetti del cattivo governo (1338-39) nel Palazzo Pubblico di Siena, che vede al centro un essere diabolico, incarnazione della tirannide. E in particolare lungo il '900 la questione ha assunto rivolti marcatamente politici, come dimostrano le identificazioni del demonio con i fascismi: accade nel 1937 in alcuni dipinti di Max Ernst o di Rudolf Schlichter. Nel 2007, invece, Richard Phillips ha ripreso il Giudizio Universale del Beato Angelico per dare immagine alla disumanità dimostrata dall'amministrazione Bush nel portare la guerra in Medio Oriente. E riecco l'inganno: la guerra scatenata da finte armi di distruzione di massa... Il diavolo ama la guerra. Nel 1945 Salvator Dalì e Max Ernst individuarono il demoniaco nell'esplosione nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Per i loro dipinti, il primo si ispirò alle Tentazioni di Sant'Antonio di Salvator Rosa (1645), il secondo ai bestiari medievali e agli incubi demoniaci di Matthias Grünewald (1480-1528).
Il diavolo, sfoderando la sua migliore astuzia, vuole farci credere che non esiste. E invece è ovunque. È nei cartoon della Disney (il film musicale del 1940 Fantasia, la cui direzione artistica fu firmata dall'illustratore danese Kay Nielsen, allinea un repertorio di temi iconografici diabolici che va dalla danza macabra alla caduta degli angeli ribelli, dall'apocalisse al sabba). È, luciferinamente, in una grande tela di Jackson Pollock, uno dei suoi primi dripping, del 1947. È nelle anti-Madonne e nei dipinti beffardi dell'americano Robert Williams, sotto le fattezze tentatrici (o liberatrici?) di sesso, alcool e mescalina. È nelle foto di Cindy Sherman (The Devil, 1986), artista diabolica che concede al diavolo le sembianze del marito, nonostante la Storia insegni che il diavolo è donna, dalla mesopotamica Lilith alle streghe di Goya fino all'Angelina Jolie di Maleficent... e ancora. Il diavolo è nelle piume di uccello rapace delle collezioni autunno-inverno 2009 di Alexander Queen. È nei cavatappi di design di Alessi.
Ed è nelle videosculture di Tony Oursler, il quale per la prima volta associa al demoniaco il colore blu, ossia la luce dei monitor e delle immagini virtuali, cioè illusorie. Cioè ingannatrici. Il diavolo ce l'abbiamo sempre di fronte, ogni volta che guardiamo un pc, un tablet, il telefonino. Non ci libereremo mai di lui.
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