Cultura e Spettacoli

Ideologici e confusi. Quel che resta di Marx non è il marxismo

Un saggio ripercorre le contraddizioni di una dottrina nata "scientifica" ma piena di lacune

Ideologici e confusi. Quel che resta di Marx non è il marxismo

Nel suo limpido saggio, Il marxismo dopo Marx (Ed. Castelvecchi), Giuseppe Bedeschi, non solo uno dei massimi studiosi italiani di storia del liberalismo, ma, altresì, un profondo conoscitore dell'universo marxiano dai fondatori del materialismo storico alle più rilevanti correnti di pensiero che ad esso si sono ispirate, da Gramsci alla Scuola di Francoforte esamina lo «sviluppo e la dissoluzione» di una dottrina che ancora oggi rimane la guida di una delle grandi potenze del pianeta, la Cina, nonché del Vietnam, della Corea del Nord e di alcuni stati latinoamericani.

Bedeschi non si occupa al di là di precisi e significativi richiami - delle critiche serrate che al marxismo sono state rivolte da filosofi, sociologi, scienziati politici, storici ed economisti estranei al movimento operaio e ai suoi partiti da Vilfredo Pareto a Raymond Aron, da Max Weber ad Hans Kelsen, da E. Boehm-Bawerk a Enrico Barone bensì soltanto dei teorici e degli uomini d'azione che a Marx e a Engels hanno guardato come al Nuovo Testamento e che ad essi hanno improntato il loro pensiero e la loro azione.

La tesi del libro è che i marxismi sono tanti per la semplice ragione che «la dottrina di Marx, quale si ricava dai numerosi libri da lui scritti, presenta diverse incongruenze, contraddizioni, lacune, che la inficiano gravemente» e che, pertanto, la sua lezione è stata variamente intesa a seconda delle interpretazioni che sono state via via fornite delle tante categorie ambigue disseminate in quegli scritti: ad es. la dittatura del proletariato, l'estinzione dello Stato, la dialettica, la teoria del valore-lavoro, il rapporto con Hegel e con l'economia classica etc. Una filosofia alla quale si sono rifatti socialisti così diversi come Lenin e Jaurès, Filippo Turati e Louis Althusser, Karl Kautsky e Gyorgy Lukacs, Stalin e Marcuse, Sartre e Mao Ze-Dong, doveva contenere necessariamente irrisolvibili ambivalenze al di là del nocciolo duro costituito dalla pars destruens: la soppressione della schiavitù dell'uomo sull'uomo, l'abolizione della proprietà privata e del regime capitalistico, la fine delle diseguaglianze sociali. Dei dieci densi capitoli del libro un autentico modello di chiarezza espositiva nei quali Bedeschi ripercorre la storia dei contrasti tra le varie versioni della scolastica marxista, il più importante è il secondo, La sfida revisionistica di fine secolo e la risposta del marxismo ortodosso. Il testo di Eduard Bernstein, I presupposti del socialismo e la critica delle socialdemocrazia (1899), rappresenta, infatti, una confutazione del Capitale, sul piano dell'esperienza storica, che avrebbe pesato sull'ortodossia in maniera decisiva, costringendola a raggiustamenti teorici e a quelle che Karl Popper definiva le spiegazioni ad hoc. «L'acutizzazione dei rapporti sociali vi si legge- non si è compiuta nel modo raffigurato nel Manifesto.... Il numero dei possidenti non è diminuito, bensì è aumentato. L'enorme aumento della ricchezza sociale non è accompagnato dalla progressiva diminuzione numerica dei magnati del capitale, ma da un aumento numerico di capitalisti di ogni grado. Gli strati intermedi mutano il loro carattere ma non scompaiono dalla scala sociale».

Non si esagera se si afferma che furono le dure repliche della storia a indurre a revisioni profonde della filosofia della prassi, non tutte nel segno di un avvicinamento ai valori della società aperta. Le pagine su Lenin e su Gramsci, a questo proposito, risultano non poco illuminanti. L'autore dei Quaderni del carcere, in particolare, si rese conto più di ogni altro che la visione marxiana della società civile come struttura, insieme dei rapporti materiali dell'esistenza (economia), non faceva comprendere la crescente complessità del mondo moderno e che la società civile doveva essere intesa come sovrastruttura, elemento primario e determinante, comprensivo «di tutto il complesso della vita spirituale e intellettuale». Anche Norberto Bobbio, nel commento a Gramsci, lo aveva fatto rilevare ma senza trarre fino in fondo le conclusioni totalitarie insite nella liquidazione del marxismo come sociologia materialistica. Se la cultura è decisiva per la conquista del potere, l'egemonia del proletariato teorizzata da Lenin non poteva che qualificarsi come egemonia culturale, intesa ad abbracciare «non solo il partito, ma tutte le altre istituzioni e articolazioni della società civile (scuola e università, istituzioni e articolazioni culturali, editoria, giornali ecc.)» e «alla elaborazione e diffusione di una nuova concezione del mondo, di una riforma intellettuale e morale, quale conditio sine qua non per la creazione di un nuovo ordine e di un nuovo apparato statale».

Ma non meno penetranti sono le pagine su Lenin, che, con la sua idea che la classe operaia fosse «ormai priva di una coscienza di classe rivoluzionaria» e aspirasse «soltanto a migliorare la propria condizione all'interno della società capitalista», in sostanza sottoscriveva un punto decisivo dell'analisi del nemico Bernstein. Non è possibile ripercorrere, con l'Autore, le polemiche tra Lenin, Kautsky, Rosa Luxemburg, Stalin e Trotzki o quelle che divisero i marxisti europei su temi cruciali come la dittatura sovietica, la genesi e la natura del fascismo, il crollo del capitalismo etc.

Si ha l'impressione malinconica, leggendo le battaglie filosofiche del secondo dopoguerra (G. Lukacs, J. P. Sartre, L. Althusser, Galvano Della Volpe, Lucio Colletti), di trovarsi di fronte a tematiche che con la realtà contemporanea hanno lo stesso rapporto delle contrapposizioni medievali tra realisti e nominalisti viste con gli occhi degli umanisti e dei loro eredi illuministi.

«Divisi e spesso profondamente divisi su molte questioni ereditate da Marx, i suoi seguaci sono stati però uniti nell'ignorare il carattere inevitabilmente autoritario e totalitario della società che essi progettavano». La conclusione di Bedeschi è ineccepibile ma non si può non ricordare che, furono i socialisti riformisti (ma pur sempre marxisti, es. Turati, Rodolfo Mondolfo, Alessandro Levi) a tenere alta la bandiera della libertà politica e della democrazia parlamentare quando, nel primo dopoguerra, non pochi liberali e democratici borghesi, prendendo atto della crisi delle democrazie, sembravano quasi rassegnati all'avvento delle dittature.

L'eredità del Risorgimento democratico e liberale in loro era più viva e feconda della teorica marxiana.

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