Incanto, rabbia, nostalgia. Il tramonto di Roma è una piccola bellezza

Lo sceneggiatore ritrae la decadenza della città. In un libro intenso, malinconico e istruttivo

Incanto, rabbia, nostalgia. Il tramonto di Roma è una piccola bellezza

Ci si accorge, a un certo punto, che nemmeno la nostalgia è più quella di un tempo. Prendiamo Roma, la vera protagonista dell'ultimo romanzo di Enrico Vanzina (La sera a Roma, Mondadori, pagg. 187, euro 18,50), «l'unica città mediorientale a non avere un quartiere europeo», come diceva Flaiano... Vanzina ha continuato e continua a viverci con la testa voltata all'indietro, sempre sforzandosi di non vedere quello che aveva e ha davanti.

Essendo più o meno coetanei, le strade, le passeggiate, gli scorci, la sua toponomastica, diciamo così, del cuore, è la mia stessa di ragazzino negli anni Cinquanta, adolescente nei Sessanta, che poi altro non è che quella dei suoi-miei genitori, di quando ancora si sceglievano i ristoranti sulla base di camerieri di mezza età, inquartati nelle loro giacche bianche e mai frenetici, e di menu immutabili negli anni, del tutto insensibili alle mode. In un passo strepitoso del romanzo, il vecchio nobile Cafiero d'Aragona, nel presentare al circolo della Caccia il suo Memorie di un uomo superficiale, osserva: «Oggi, riguardando le foto di quell'epoca, scatta a' malincunia. Quando sfoglio una rivista di moda, leggo che sono eleganti quei giovanotti che vestono di nero, come dei becchini: pantaloni a tubo, punto vita sotto l'ombelico... Per non parlare delle donne, le grandi star che sembrano uscite da un supermercato».

Federico, l'alter ego romanzesco di Enrico Vanzina, si illude che la rievocazione-celebrazione di ciò che è stato lo metta al riparo dai guasti del presente e il suo atteggiamento rimanda un po' all'esergo del Grande Gatsby di Fitzgerald: «Così continuiamo a remare, barche controcorrente risospinte senza posa verso il passato». Più Roma gli risulta invivibile, più si attacca agli ultimi scampoli di un'eleganza che si ostina a ritenere senza tempo, senza accorgersi che invece e irrimediabilmente ha fatto il suo tempo e si è trasformata nella sua caricatura. Anche i modelli si sono usurati, da decadenti sono divenuti patetici, e quindi ridicoli: «Inconsciamente, in una Roma che stava perdendo la sua magia secolare, mi ero illuso che il vecchio nobile fosse più vitale del nuovo cafone. Non capendo che anche quel mondo vecchio si era corrotto alla rincorsa del nuovo».

La rincorsa, del resto, implica una nuova geografia sociale. «Avete notato che ormai la roccaforte del Partito Democratico sta ai Parioli? In periferia, invece, fanno tutti il tifo per Giorgia Meloni». Orfana della sua borghesia moderata, la destra, si sorprende a pensare Federico, «è ormai votata da camerieri esacerbati, da qualche pensionato nostalgico e da tassisti tatuati. Sull'onda di una rabbia spicciola e non più sull'antica convinzione che lo Stato assistenzialista di sinistra limita la nostra libertà. Oggi la gente se ne fotte della libertà». Quanto alla nuova classe sociale che ne ha preso il posto, il corpaccione borghese, proletario nelle sue dimensioni, capitalista nella sua disinibita ansia di ricchezza, «coltiva altri interessi: i ristoranti, i suv, lo stadio Olimpico, i week-end a Sabaudia e a Porto Ercole, il burraco e l'antica propensione per la fica».

È per certi versi un peccato che La sera a Roma sia costruito come un romanzo giallo, consapevole cedimento a una moda narrativa fattasi sempre più bieco cliché («Entrai da Feltrinelli e passai in rivista le novità italiane. Erano quasi tutti romanzi gialli, o polizieschi, o noir. Evidentemente qui da noi il mistero è l'ossessione collettiva»). Un peccato perché i delitti che Vanzina racconta, in primis quello di un giovane attore belloccio senza arte né parte, e le indagini che a essi fanno corona, sono più una sovrastruttura che non il cuore duro del romanzo. Il cuore, lo abbiamo detto, è Roma, dove del resto nemmeno i morti ammazzati e/o gli scandali sono più quelli di una volta: «È dal temo del Number One che non capitano più storie del genere! Ma non vedi in giro che tristezza? Politici d'accatto che vanno a letto con strappone di quarta categoria, transessuali gonfi di botox, mezzi malavitosi che rubano sulla spazzatura e portano le amanti in pizzeria, squallidi faccendieri che speculano sugli immigrati e si fanno delle villette in periferia con i nanetti in giardino». Così come anche il giornalismo, va da sé, è scaduto: «Sembra scritto da un rumeno» dice sconsolato di un articolo un redattore capo...

La sostanza stessa della capitale eterna si è poi rumanizzata e l'unica cosa veramente popolare rimasta è usare il termine «pupi» per indicare i figli più piccoli, e da qui «Er Pupone» a significare il suo figlio calcistico più grande nel suo restare eternamente bambino... «Il centro storico sembrava un bar a cielo aperto, i tavolini erano sparsi dappertutto. Con la loro ossessiva presenza avevano cancellato le simmetrie disegnate dai geni del barocco. Musica sparata dagli altoparlanti, merce dozzinale. Avevano spazzato via i negozi della tradizione per sostituirli con quelli della globalizzazione. Non era stato un affare, si era insinuato il brutto in una città che, invece, era bella».

È proprio per questo che il protagonista di La sera a Roma cerca rifugio, sbagliando, in uno snobismo manierato, il piacere di poter ancora guardare gli altri dall'alto in basso. Come diceva il duca di Bedford, «il mondo è costruito talmente bene che tutti troviamo sempre qualcuno da guardare dall'alto in basso», ma nel caso di Federico lo sbaglio sta nel non accorgersi che l'alto si è incanaglito e il basso non ha più un modello a cui aspirare: «Roma era diventata brutta semplicemente perché si erano corrosi i romani, il loro orgoglio si era trasformato in vergogna. E tutto ciò stava accadendo nella letteratura, nella musica, nel cinema, nel teatro. Noi, tutti noi, finiamo per dimenticare le ragioni che ci spingono a essere autenticamente noi stessi».

Sceneggiatore di successo, Enrico Vanzina ci lascia con La sera a Roma un libro malinconico quanto istruttivo, ricco di piccole verità («Gli italiani? Promettono molto, mantengono poco»; «L'unico vero popolo spiritoso è il nostro. Il guaio è che qui siamo tutti spiritosi ma abbiamo l'immondizia per strada e non abbiamo più soldi per pagare le pensioni») e con alcuni bei camei amicali (un ritratto di Pietro Calabrese, un altro di Oliviero Beha).

Ci lascia anche, come ideale soggetto cinematografico, l'altra faccia della Grande bellezza di Paolo Sorrentino, il più bel film sulla decadenza italiana degli ultimi anni e dove Roma ne era cornice e metafora. Qui c'è la Roma di oggi e ormai ostinarsi ad amarla più che un delitto è un consapevole errore. Da compiere però in orgogliosa solitudine.

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