Kristeva: "Identità nazionale antidoto al male della banalità"

L'intellettuale riflette sull'esistenza di una cultura europea. Che servirebbe proprio all'Unione europea...

Kristeva: "Identità nazionale antidoto al male della banalità"

«Mi considero cittadina europea, di nazionalità francese, bulgara di origine e americana di adozione» dice Julia Kristeva, filosofa, semiologa, scrittrice, psicanalista nata a Sliven, Bulgaria, nel 1941 e dal 1966 protagonista della vita intellettuale e culturale parigina. Nella capitale francese arrivò con cinque dollari, due valigie in cuoio e una borsa di studio, come è stato ricordato ieri all'Università Iulm di Milano, dove le è stata conferita una Laurea magistrale honoris causa in Traduzione specialistica e Interpretariato di conferenza. «È il primo evento per festeggiare i cinquant'anni di fondazione dell'ateneo» ha detto il rettore Gianni Canova, mentre il suo predecessore Giovanni Puglisi ha raccontato come Roland Barthes, fra i tanti colleghi e amici della Kristeva (con Eco, Derrida, Lacan, Foucault e Philippe Sollers, con il quale è sposata da quarant'anni), così parlò della Etranger, «la straniera», nel 1970: una che «sposta le cose», ovvero «il già detto», «la stupidità». Una «intrusa» fra i circoli parigini, abituata a essere già straniera in patria, cresciuta con un padre cristiano ortodosso nella Bulgaria comunista. Come ha spiegato ieri durante la sua Lectio e incontrando la stampa, da «cittadina europea», quale si sente, Kristeva afferma che «esiste una cultura europea», senza punto interrogativo. «Anche se la meteorologia politica parla di tempeste sull'Europa...».

Il continente è «in crisi» sul piano politico e sociale, a Strasburgo c'è appena stato un attentato al grido di Allah Akbar, eppure, dice Kristeva, «sebbene l'Europa possa sembrare un caos e un pugile ko, non credo che siamo nel caos. I nostri problemi sono quelli del mondo globale: cerchiamo risposte, e in questo abbiamo un ruolo da precursori». Di fronte alla crisi economica «nessuno, fra italiani, portoghesi, greci, francesi, perfino fra i britannici, ha messo in dubbio di appartenere a una cultura europea: tutti si sentono europei, benché il termine cultura europea non sia inserito nel Trattato di Roma». La cultura europea quindi non coincide con quella dell'Unione europea? Risposta: «L'Unione non ha una politica culturale. Celebra i patrimoni, mentre bisognerebbe creare una Federazione culturale europea, con la partecipazione degli intellettuali, i pensatori e gli artisti di tutti i Paesi, per sviluppare i punti cardinali della sua storia». Si tratta di tre elementi fondamentali: «L'idea di individualità, che non è l'individualismo o il narcisismo, bensì una singolarità libera e indivisibile; la nazione, intesa come comunità evolutiva, e non chiusa; gli ideali religiosi, che creano un bisogno di credere e un desiderio di sapere. Questo dualismo fra bisogno di credere e desiderio di sapere impedisce che le religioni degenerino nel radicalismo».

L'identità oggi è un problema «critico», ed è «un paradosso»: «Esiste una identità, la mia, la nostra; essa può essere creata, ma anche disfatta. Nietzsche ha detto che dobbiamo mettere un punto di domanda alla fine delle frasi più serie: l'identità, la lingua, la nazione, Dio devono diventare domande. Però spesso questa identità come domanda diventa tolleranza permissiva». Invece Kristeva parla di una «identità plurima, come gli universi dell'astrofisica», in cui un ruolo centrale è giocato dal multilinguismo. «È solo attraverso la lingua altrui che possiamo risvegliare la passione per ogni lingua, come elemento fondamentale di una diversità prorompente», e come base di un futuro «individuo caleidoscopico». Però le nazioni, nella loro diversità, sperimentano anche la «depressione»: e, come con il paziente depresso bisogna «ricostruire l'identità», così «la nazione depressa ha bisogno di una immagine forte di sé» prima di potersi sentire parte di una Unione o, per esempio, prima di «accogliere immigrati». Kristeva cita Giraudoux: «Le nazioni, come gli uomini, muoiono di impercettibili scortesie» e il fatto è che «i poteri politici oggi feriscono»: «Un universalismo mal compreso e la colpa coloniale, con la scusa del cosmopolitismo, portano a scortesie nei confronti delle nazioni». Conclusione: «L'identità nazionale è il solo antidoto al male della banalità», versione contemporanea della banalità del male di Hannah Arendt, e solo una «Europa federale con queste diversità, linguistiche e culturali, può trovare un ruolo importante nella ricerca di un nuovo equilibrio mondiale».

L'identità nazionale «va valorizzata, non solo nelle cerimonie, bensì concentrandosi sulle questioni cruciali come le angosce, le passioni, i bisogni delle persone, le sofferenze degli adolescenti e quelle di una vita senza senso». Tutte questioni che la politica tende a «dimenticare», così come «tace» su un'altra causa del malessere diffuso: il rifiuto del «bisogno di credere, che viene prima della politica e della religione, e fa parte di noi». «La degradazione della capacità di soddisfare questo bisogno porta alla rabbia, alla voglia di vendetta in persone prive di ideali, anche se vorrebbero averne». I più colpiti dalla «malattia di idealismo» sono gli adolescenti: «Integralismo e nichilismo sono figli di questa malattia. Ma l'Europa che ideali propone a questi adolescenti? È una sfida storica: è capace di affrontare questa crisi della fede? La rabbia dei gilet gialli in Francia viene dal fatto che la politica non tratta i problemi che stanno loro a cuore».

Che cosa si può fare in concreto? «L'angoscia che paralizza l'Europa esprime l'incertezza di fronte alla posta in gioco. Il lavoro degli intellettuali, oggi, è proprio su questo bisogno di credere. Perché il caos creato da fanatismo e nichilismo tocca i fondamenti del legame fra gli esseri umani».

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