Cultura e Spettacoli

Lady Macbeth e signore. Le voci femminili all'opera

Il punto nodale del capolavoro di Shakespeare è il potere. In quello di Verdi la prova del soprano. La sfida Netrebko

Lady Macbeth e signore. Le voci femminili all'opera

La posizione di unicità conquistata negli ultimi sessant'anni dal Macbeth di Giuseppe Verdi, non può trascurare un fattore fondamentale alla sua piena rivelazione: la necessità di una coppia protagonista, Macbeth e Signora, che richiede interpreti dalle caratteristiche speciali. Verdi stesso ha lasciato indicazioni famose, puntualmente riprese da ogni commentatore. La dominatrice della vicenda, Lady Macbeth, non deve essere una donna scenicamente avvenente, non deve avere una «bella» voce, piuttosto deve essere brutta e avere una voce «aspra, soffocata», tenebrosa, selvatica. Appartiene, infatti, a quelle eroine verdiane, che rinunciano all'eros e alla loro femminilità, sostituita dall'ambizione del potere, come la rapace Abigaille nel Nabucco, come la pulzella psicologicamente instabile Giovanna d'Arco, come la vergine furente Odabella in Attila.

Il loro archetipo proviene dal mito delle Amazzoni, come ci ricorda un bel saggio recente di Franco Onorati (L'erotismo nel melodramma, Aracne 2021). Si tratta di donne «in armi», donne «sole», donne «che negano l'esistenza dell'altra metà del mondo».

Il grado più acuto di queste virago è proprio quello incarnato da Lady Macbeth, creatura «che ha strappato dalle sue viscere ogni residuo di femminilità» e che spinge Verdi a ricercare soluzioni vocali nuove e diversificate. L'eroina appare magicamente in scena con la recitazione della lettera del marito, in cui viene informata delle profezie delle streghe, dopo la quale scatta l'ambizione in un arioso teso (Ambizioso spirto, tu sei, o Macbetto), dove la stragrande maggioranza delle cantanti mostra la difficoltà di essere cant'attrici, sfogando l'eccitazione e la brama di potere in una «cabaletta» demoniaca dalla tessitura sfiancante. Formidabile anche la sua presenza nello spingere il marito all'omicidio, nell'impartire quella convinzione che non ha, lasciando lo spettatore sempre nel dubbio sulla responsabilità ultima del delitto, sulla natura complessa del Male. Così nella scena del brindisi, quando è diventata regina usurpatrice, passa nello stesso brano (Si colmi il calice di vino eletto) dall'autocelebrazione del proprio ruolo all'esortazione feroce del marito, distrutto dalla comparsa dell'ombra di Banquo che hanno appena fatto uccidere. Il punto più alto per Lady Macbeth è la claustrofobica «gran scena del Sonnambulismo», quando rivive gli omicidi e viene inghiottita dal senso di colpa.

Trovare una voce di soprano con la resistenza, la duttilità e il colore vocali giusti è sempre stato un problema (spesso risolto ricorrendo a mezzo-soprani, come Shirley Verrett, Christa Ludwig, perfetti come colore scuro, ma in difficoltà nelle cabalette o nello sfumare il congedo in pianissimo, il re bemolle acuto con cui Lady Macbeth scompare altrettanto misteriosamente alla fine del sonnambulismo). Sapremo che si è tolta la vita, suggellando «un'esistenza gestita con feroce autarchia, mai delegata ad altri», pupara divenuta marionetta del destino.

Giustamente viene ricordata come storica la completezza straordinaria di Maria Callas, quando interpretò nel 1952 per l'unica volta nella sua carriera, la parte di Lady Macbeth: mai si era sentita così folgorante la sfrontatezza con cui la belva spinge il marito (il malcapitato baritono Enzo Mascherini) ai vari delitti, mai un colore notturno e una dizione più scolpita, aderenti al personaggio immaginato da Verdi. Ebbe un trionfo, non senza qualche fischio sonoro, da parte di quelli irriducibili che la consideravano un'usurpatrice (così il critico Eugenio Gara sentì gridare un suo vicino di poltrona all'indirizzo della Signora Meneghini Callas), causa certi piccoli nei (acuti un po' schiacciati, note spesso in «maschera», tecnica di emissione che per altro diventava in lei arte sovrana), essendo il fruitore medio sempre alla ricerca dell'edonismo vocale a scapito dell'espressione, a detrimento dell'essere personaggio a tutto tondo.

In un Parnaso vocale del ruolo, accanto alla grinta non dimenticabile di una Ghena Dimitrova, alla sanità e potenza fonica di Birgit Nilsson, non vanno dimenticate le prove di Leyla Gencer (Palermo, Venezia, Scala, Firenze), la quale riusciva nel contempo ad essere regalmente spavalda e segretamente colpevole, fragile.

Sarà molto interessante ascoltare nella prossima inaugurazione come una cantante dalla voce qualitativamente sontuosa, dalla presenza fisica non meno che florida, insomma come Anna Netrebko penetrerà nel personaggio Lady Macbeth.

Lo stesso discordo sulle grandi risorse attoriali vale per Macbeth, baritono al quale non è richiesto il «bel-canto» (se si eccettua la commovente aria finale della morte), ma un recitar cantando sotto il peso continuo e specifico di azioni via via più scellerate.

Per garantire la statura del personaggio ci vogliono interpreti che carichino ogni parola delle intenzioni necessarie, che rinuncino a fare la voce grossa (lo stesso Verdi pregava il baritono Felice Varesi di pronunciare il fatale duetto davanti alla camera di Duncano, tutto sottovoce), che facciano avvertire il granito che grava sulla psiche di Macbeth, come è riuscito a baritoni della statura di Leonard Warren, Giuseppe Taddei, Renato Bruson.

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