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L'affetto malinconico di Dino Buzzati per i libri

Probabilmente il numero di quelli che ha scritto è maggiore di quelli che ha posseduto. Uno dei rari casi in cui la bibliografia è più lunga dello scaffale della biblioteca. E infatti, chi ha avuto modo di passare dall'appartamento in cui visse Dino Buzzati dal 1962 alla morte, dieci anni dopo, all'ultimo piano della Casa della Fontana a Milano, ha notato facilmente come ancora oggi sia strapiena di quadri e oggetti, ma non di libri.

Buzzati non era un bibliofilo, ma uno scrittore che i libri li leggeva e li usava. Che è molto diverso. Non lo aiutò nemmeno, anzi complicò il suo rapporto con i libri, il fatto di aver assistito, ragazzo, al dramma del padre che vide smembrata e dispersa, a causa della guerra, la biblioteca di famiglia, iniziata dal nonno. Da allora lo scrittore rifiutò sempre di costituirne una propria, ritenendola inutile (o forse causa di futuri dolori). Però, anche se non amava possedere libri, Buzzati ne comprendeva bene il fascino che sanno emanare. E lo dimostrò in un malinconico elzeviro per il suo Corriere della sera, nel 1955, in cui trasformò un fatto di cronaca - il pensionamento di Maria Buonanno Schellembrid dalla Biblioteca Braidense, di cui era stata direttrice fin dal 1942, proteggendola da incendi e bombardamenti - in uno squisito «racconto giornalistico», in puro stile Buzzati. Eccolo qui: Un addio ai libri (Henry Beyle, pagg. 36, euro 26; a cura di Lorenzo Viganò).

In un pezzo di due colonne (della vecchia Terza Pagina), Dino Buzzati è capace di: trasformare un innocuo incontro con una ambigua bibliotecaria in un piccolo giallo, con colpo di scena finale; costruire una superba similitudine «affettiva» lunga ben 15 righe tipografiche; smascherare uno dei tanti lati contraddittori di Milano (generosa ma implacabile con la Natura); e a cogliere - lui, al quale nulla interessava di volumi rari e prime edizioni - l'essenza dell'amore per i libri. A proposito dei quali si chiede: chi potrebbe sostenere che siano solo «cose»?

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