In un lampo creava pezzi perfetti. Ma la sua forza era la modestia

Era un paladino della ragionevolezza, la sua capacità di spaziare nello scibile giornalistico era inimitabile

In un lampo creava pezzi perfetti. Ma la sua forza era la modestia

Mario Cervi ha deposto la penna, non scriverà più, questo è il guaio, e non potremo più leggerlo sul suo e nostro Giornale. Suo perché lui lo ha fondato insieme con un gruppo di fuoriclasse capitanato da Indro Montanelli, il Papa dei giornalisti italiani. Non scriverà più perché è morto mentre si avvicinava al compimento dei 95 anni. Tanti, ma insufficienti a togliergli la lucidità e la voglia di scrivere articoli impeccabili, i migliori che trovassero adeguata ospitalità su queste colonne, da taluni giudicate infami fin dal primo giorno della loro pubblicazione. Era il 25 giugno 1974, un anno orribile quanto i tre o quattro precedenti, duranti i quali la sinistra violenta, il Partito comunista armato, si organizzò con lo scopo di rovesciare l'ordine costituito.I rivoluzionari rossi diventarono di moda in poco tempo, e non c'è niente di più efficace della moda per ottundere le menti. Le teorie marxiste si propagarono con la velocità di una perniciosa epidemia. Ne fu contagiato anche il Corriere della Sera, un nido di talenti, cosicché Montanelli fu scortesemente licenziato in quanto considerato non omogeneo al progetto di Giulia Maria Crespi, la padrona delle rotative, affidato a Piero Ottone per la realizzazione. Fuori dal Palazzo di via Solferino, Indro pensò subito di dar vita a un proprio quotidiano alternativo a quello da cui era stato cacciato. Ne fu capace, reclutando le firme insigni disponibili a seguirlo in una impresa che pareva velleitaria, tra cui il raffinato Enzo Bettiza e, appunto, Mario Cervi, già ultracinquantenne, inviato di vaglia ma non ancora assurto all'empireo degli scribi.L'esordio del Giornale fu accompagnato da un coro di pernacchi. La critica più benevola rivolta alla redazione fu: «Un branco di fascisti». Fascisti all'epoca era un insulto ricorrente. In seguito, il termine, intriso di disprezzo, fu sostituito da qualunquisti. Oggi i kretini di sinistra per offendere gli avversari usano a sproposito una parola magica, capace di zittire chiunque: populisti. Essi ignorano che il populismo fu il padre del comunismo, ma questi sono dettagli. Ciò che conta è altro. Il Giornale con Indro al timone vinse la propria battaglia contro il conformismo, anticipando puntualmente le topiche cui sarebbero andati incontro i borghesucci in eskimo: sgominata Prima Linea, decimate le Brigate rosse, annientati i bulli del Sessantotto, quelli dei cortei in cui i poliziotti erano picchiati, quelli che occupavano le università pretendendo il presalario e il 26 politico indispensabile per ottenerlo. Tutta robaccia spazzata via soprattutto per merito del Giornale che contribuì in modo decisivo a risvegliare le coscienze.Questa non è un'opinione, bensì la foto della realtà di allora. Mario Cervi fu uno dei principali protagonisti della riscossa, un paladino della ragionevolezza che pareva perduta per sempre. In pratica, egli fu l'alter ego di Montanelli, il suo braccio esecutivo. Scrisse migliaia di articoli per il suo direttore, che li firmava dopo aver aggiunto qualche toscanismo e cancellato un paio di incisi, conferendo alla prosa un tocco della propria genialità. Ma il prodotto non era di Indro, bensì di Mario, un fenomeno anche in tarda età, tant'è che noi, quando eravamo in difficoltà ad affrontare un argomento, gli chiedevamo soccorso. Lui ci ascoltava in silenzio, senza prendere appunti, e mezz'ora più tardi inviava un pezzo perfetto, al quale non si doveva modificare una virgola. Era stupefacente la sua abilità nello spaziare da un campo all'altro dello scibile giornalistico: nessuna esitazione, nessuno sbandamento, nessuna imprecisione.Egli aveva una memoria prodigiosa che lo ha assistito sino all'ultimo giorno, vissuto in buona salute e col desiderio di non farci mancare il suo apporto di alta qualità. La vita di Mario è ricca di episodi che meriterebbero di essere ricordati. Spesso raccontava la sua esperienza di sottotenente nella guerra che avrebbe dovuto, nei sogni mussoliniani, spezzare le reni alla Grecia, e che invece sfociò in un disastro; i nostri militari fraternizzarono con gli ellenici con cui si opposero ai tedeschi. Cervi fu salvato da una famiglia greca, nella quale trovò la donna ideale, Dina, che poi sposò e che gli rimase al fianco fino a otto anni orsono, allorché morì provocando nel marito una prostrazione da cui faticosamente, e parzialmente, si risollevò grazie alla figlia e al lavoro.Già. Il lavoro era ciò che gli dava la forza di tirare avanti, nonostante qualche acciacco. Un aneddoto. Nel dicembre del 1997, lasciai per stanchezza la direzione del Giornale (che avevo avuto in eredità da Montanelli) e la proprietà non sapeva con chi sostituirmi. Fui io, su suggerimento di Stefano Lorenzetto, a buttare lì il nome di Cervi, il più anziano, il più bravo di tutti noi. Il mio consiglio su accolto con entusiasmo da Paolo Berlusconi che non esitò a convocare Mario e a investirlo della carica di direttore responsabile. Lui accettò per spirito di servizio e assunse l'incarico prodigandosi da par suo. Ossia scrivendo fondi mai banali, puntuali, privi di sbavature, eleganti.L'uomo era così, schivo e gentile, incline alla riservatezza. Non si è mai dato arie benché avesse motivi per darsene molte. Una sera fui invitato da Indro in casa sua per una cena, in viale Piave, e a noi si aggiunse Cervi. Seguì una lunga chiacchierata, durante la quale appresi con stupore che i famosi libri di storia (una dozzina) firmati da entrambi i giornalisti furono scritti non a quattro mani, ma a due soltanto, quelle di Mario, la cui prosa limpida e scorrevole non tradì mai quella del maestro, che si limitava a vergare la prefazione o la postfazione con inimitabile stile, analogo a quello del valente collega. Cervi adorava Indro e lo servì con devozione senza vantarsene e senza mai rivendicare di essere stato artefice di successi editoriali strabilianti, attribuiti quasi esclusivamente all'indimenticabile direttore del Giornale. Chiunque al posto suo avrebbe suonato la tromba per attirare l'attenzione su di sé. Lui è stato zitto e si è consumato le dita picchiettando sulla tastiera, e quando ha dovuto smettere per la frattura del femore, ha preferito abbandonarci.

Noi abbiamo perso un punto di riferimento, non solo un grande giornalista, ma anche una persona per bene di rara probità. Sapendo che egli era infastidito dalla retorica, mi guardo dal dare la stura al piagnisteo. Se proprio dovrò lacrimare, lo farò stanotte, di nascosto. Qui al Giornale non c'è un vuoto, ma una voragine.

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