Puntualmente, verso la fine arrivava il momento fatidico in cui Jim Hutton lo faceva. Usciva dal set, usciva dalla storia, usciva dalla «sospensione dell'incredulità» di attore (perché anche gli attori la usano, la «sospensione dell'incredulità», altrimenti come potrebbero recitare?) per infrangere quella dello spettatore. Guardava in camera e diceva...
Be' non è facile, dopo oltre quarant'anni, ricordare parola per parola che cosa diceva, ma era una sorta di formula inquisitoria, un po' professorale: in sostanza chiedeva a te che lo avevi seguito fino a lì: «Allora, adesso ti è tutto chiaro? Hai in mano tutti gli elementi per capire com'è andata, dunque chi è il colpevole?». E la risposta, puntualmente, era «Non lo so». Sorgeva persino il dubbio che Jim Hutton, prima di rivolgersi al pubblico abbattendo la «quarta parete» e facendo irruzione in salotto o in cucina o in camera da letto, uscisse persino dal suo personaggio, cioè da Ellery Queen, e che quell'interrogazione la facesse confidando nella risposta che sempre riceveva, così da poter dire a sé stesso: «Bene, anche questa volta abbiamo fatto un buon lavoro».
La risposta dello spettatore liceale di quei telefilm, nel 1979, era sempre «Non lo so» perché, francamente, i casi di Ellery Queen sembrano fatti apposta per non essere risolti da chi li legge e da chi li guarda (e da chi li ascolta, perché negli Stati Uniti anche in radio ebbero un grandissimo successo, fra il 1939 e il 1948). Appartengono alla stessa specie di quelli di Arthur Conan Doyle, di S.S. Van Dine e di Agatha Christie, in cui la capacità deduttiva di chi investiga fa pensare al paradosso di Zenone, ma al contrario: ci sentiamo tutti lentissime tartarughe che non potranno mai raggiungere il velocissimo Achille. Insomma, per quel liceale, Jim Hutton nei panni di Ellery Queen era molto più di un secchione, era un alieno. L'esatto opposto rispetto a Gino Cervi in quelli del commissario Maigret che il ragazzo aveva conosciuto quando andava ancora alla scuola media... Maigret era simpatico ed Ellery Queen no, con quel fare da «so tutto io»; Maigret era un gaudente mentre Ellery Queen non si lasciava mai andare; Maigret a volte era persino un po' gigione e distratto, soprattutto quando c'era di mezzo una bella donna, laddove Ellery Queen, a parte rarissime eccezioni, era tutto cervello e niente sentimenti.
E questo nonostante Jim Hutton apparisse sul piccolo schermo molto diverso dall'Ellery Queen come emerge dalle pagine dei cugini Daniel Nathan ed Emanuel Benjamin Lepofsky, alias Frederic Dannay e Manfred Bennington Lee, alias Ellery Queen (caso più unico che raro, nel mondo letterario, in cui «l'autore» si chiama come «il protagonista»). Jim Hutton, con il cappello da pescatore della domenica, i golfini da casalingo, le giacche autunnali, non somigliava all'Ellery Queen sofisticato, con occhiali a pince-nez e bastone da passeggio che aveva esordito nel 1929. I due dioscuri l'avevano fatto così perché il loro riferimento diretto era il dotto e aristocratico Philo Vance (che per la Rai fu Giorgio Albertazzi) di S.S. Van Dine, nato tre anni prima e subito baciato in fronte dal successo. Dannay e Lee, all'epoca ventiquattrenni, entrambi sposati, entrambi impiegati a New York nel settore della pubblicità ed entrambi giallofili, avevano fiutato profumo di dollari e si erano detti: «Proviamo anche noi...». Provarono, e andò benissimo. Nonostante l'iniziale colpo di sfiga, cui conviene accennare, anche per collegarci a una notizia del 30 novembre scorso passata quasi sotto silenzio.
Dunque. Nel '28, il McClure's Magazine (sottotitolo: «Una rivista per uomini») lancia un concorso fra i suoi lettori: mandateci i vostri romanzi polizieschi inediti, il migliore lo pubblicheremo noi. Dannay e Lee si mettono immediatamente al lavoro, dividendosi i compiti (come faranno per i successivi 43 anni, fino alla morte di Lee, il 3 aprile 1971): a Dannay l'intrico della trama, a Lee il suo «vestito», con la caratterizzazione dei personaggi e via scrivendo. Poi inviano il prezioso plico. Bingo: vincono loro. Ma... nel frattempo il McClure Magazine ha cambiato genere, proprio nel senso di gender, venendo sostituita da Smart Set (da notare il sottotitolo: «Una rivista per giovani donne»). E dunque sotto i torchi dell'editrice Stokes, sponsor dell'iniziativa, va Murder Yet to Come di Isabel Briggs Myers... E qui finisce la sfiga, perché quelli di Stokes hanno letto il libro primogenito dei cugini esordienti e l'hanno apprezzato molto. Quindi, visto si stampi anche quello, che in Italia diventerà nel '34, nella collana «Libri Gialli» della Mondadori, La poltrona n. 30, firmato «E. Queen», primo passo verso la gloria del duo più cerebrale della storia del giallo.
In casa Mondadori i «Libri Gialli» occupano le teche della memoria e della nostalgia, ma anche gli «Oscar» non scherzano. E proprio lì va ora a collocarsi il poderoso volume con Tutti i racconti di Ellery Queen (pagg. 1253, euro 30, a cura di Franco Forte; introduzione di Carlo Lucarelli; postfazione di Mauro Boncompagni). I racconti sono 91. Uno in più della paura che fa 90. Dal punto di vista dell'esercizio deduttivo del lettore, la brevità è un vantaggio, rispetto ai ritmi meno serrati dei romanzi. Ma anche qui problemi semplici da risolvere non ce ne sono. Tuttavia sappiamo che i giallofagi amano nutrirsi di enigmi.
A proposito, per tornare alla notizia del 30 novembre scorso cui accennavamo, restano enigmatiche le motivazioni che hanno portato le società canadesi Incendo e BlackBox Multimedia a produrre una serie con Ellery Queen... donna. «Gender-Swapped Ellery Queen Detective Stories», titolava Variety a proposito di questa ardita rivisitazione, ovviamente ambientata ai giorni nostri. Richard Dannay e Rand B.
Lee, della Jabberwocky Literary Agency che detiene il marchio «Ellery Queen», figli dei creatori di un mito, si sono detti entusiasti. Lo saranno anche i queeniani di stretta osservanza? Questa volta la risposta è semplice per tutti.
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