L'arte sublime di dare voce a Mimì

La grandezza di Mirella Freni era nel saper portare misura in ogni ruolo

L'arte sublime di dare voce a Mimì

Bohème, quadro terzo. Le illusioni perdute, lo spettro della morte riavvicinano Rodolfo e Mimì, la quale chiede al poeta di raccogliere le sue poche cose. «Bada», esclama Mimì con un soffio di voce, «sotto il guanciale... c'è la cuffietta rosa», rammemorando con l'elasticità pudica di un'acciaccatura lieve il pegno d'amore ricevuto nell'effimera gioia della vigilia di Natale. Uno slancio timido, «Se vuoi», ripetuto una seconda volta più rattenuto. «Se vuoi serbarla a ricordo d'amor», un'espansione che libera per un breve istante la passione incandescente come brace sotto la cenere. Sul mesto «Addio, addio senza rancor», riparte la storia di Rodolfo e Mimì per un ultimo inverno insieme. Alla notizia dolorosa della morte di Mirella Freni è stato immediato accostarla al personaggio che più si confaceva alla sua personalità schietta e genuina, quello della protagonista del capolavoro di Puccini.

Una scelta che rivela il desiderio che si tratti di una separazione momentanea, perché quando muore una cantante della sua caratura, l'artista rimane fra le nostre rimembranze più care. La parte di Mimì fu quella che la fece incontrare alla Scala con il maestro Herbert von Karayan, decisivo nell'imporre il soprano di Modena nei teatri da lui controllati, la Staatsoper di Vienna e il Festival di Salisburgo, accompagnandola nel fortunato passaggio a parti sopranili più spinte, come Elisabetta di Valois nel Don Carlo, Aida e il Requiem di Verdi. Mimì non aveva segreti per Mirella Freni, ma il suo temperamento non si fermava sugli allori: anzi, dopo averla studiata con Karayan e Kleiber, ha continuato a scavare nelle clausole, nelle fibrille, fra le pause, rivelando le intenzioni di un piccolo cuore che diviene immenso morendo nel fiore degli anni. Esemplare l'intelligenza con cui Mirella Freni si tolse la soddisfazione di affrontare in fine carriera ruoli drammatici come Adriana Lécouvreur, Fedora e Madame Sans-Gêne, senza forzare le sue caratteristiche, vale a dire quella cordialità, quella simpatia emiliana, che avevano fatto la sua fortuna. Ricordo il mio amatissimo nonno durante una recita di Fedora, in cui alla Freni era subentrata una volenterosa soprano russa. All'ennesimo tentativo di strafare, un'emissione di petto assai volgare, il nonno continuando a dirigere, disse all'orchestra della Scala: «Santa Mirella, proteggici tu!». Fra i tanti elogi in morte, un rilievo ha sottolineato con spocchia sgraziata un certo interesse nei ruoli mozartiani affrontati nella prima parte della carriera. Ma è proprio l'aver tanto cantato in questi capolavori d'insieme, ai quali va aggiunto il Falstaff di Verdi, ha consentito a Mirella Freni di passare in perfetta consequenzialità fra le stagioni vocali e le tessiture, tenendo i tempi difficilissimi del dramma giocoso e della commedia in musica. Non si può dimenticare nella sua lunga e grande carriera la freschezza del duo formato con l'amico-concittadino Luciano Pavarotti.

Avremmo tante cose da dire a Mirella Freni. Preferiamo immaginarla comunicare ai suoi cari, quella cosa «come il mare profonda e infinita» che Mimì dice a Rodolfo sul letto di morte: «Sei il mio amore e tutta la mia vita» .

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