Esile e fragile, movimentava senza fatica materiali pesanti: gesso e cemento. Parlava poco, ci ha lasciato rari scritti sparsi in qualche taccuino, non abbiamo sue foto al lavoro (e se è per questo non aveva neanche uno studio: lavorava borghesemente in casa), ma in compenso ne abbiamo una in cui appare su una Lambretta, siamo alla fine degli anni Quaranta, in tuta d'aviatore - aerei, volo e leggerezza attraversano la sua vita e il suo lavoro - con una gabbietta allacciata alla vita in cui porta a prendere aria (viveva in un piccolo appartamento in via Rossini a Milano) uno dei suoi amatissimi canarini... Si dice anticonformismo.
Anticonformista, eccentrica, aereosensibile, Regina Cassolo Bracchi (1894-1974), in arte solo Regina, fu la prima donna dell'avanguardia italiana a dedicarsi completamente alla scultura, quando in Italia essere artista donna non era facile. Scultrice, poi... Nacque nella Lomellina, a Mede, figlia di un macellaio e orfana giovanissima. Visse ritirata e all'ombra del marito: lui pittore paesaggista, molto ottocentesco, lei invece già moderna: sperimentò, scartò di lato, percorse nuove strane, provò materiali inediti. Ma morì sconosciuta fuori dal suo ambiente, ai margini della storia. Quando mancò anche il marito, andò tutto alla badante, la quale cedette tutte le opere e l'archivio al comune di Mede in cambio di una risaia... Tanto vale l'arte. E anche oggi, a quasi cinquanta dalla morte (certo: ci sono state mostre e studi di Paolo Campiglio, Luciano Caramel e il tributo di Lea Vergine) per il grande pubblico la domanda resta: chi è Regina Cassolo Bracchi?
La risposta la dà la prima grande retrospettiva che le dedica la GAMeC di Bergamo, titolo sintetico e definitivo: Regina. Della scultura, una mostra-evento che nasce dalla donazione da parte dei collezionisti milanesi Gaetano e Zoe Fermani di un consistente nucleo di opere dell'artista: quaranta al museo di Bergamo e sedici al Centre Pompidou di Parigi (che a Regina dedicherà un'attenzione particolare nella mostra Women in abstraction curata da Christine Macel e Karolina Lewandowska la cui apertura è fissata il 5 maggio).
Intanto, da mercoledì, con la riapertura dei musei italiani, s'inaugura la grande mostra alla GAMeC. Un anno di preparazione, due curatori - il direttore della Galleria, Lorenzo Giusti, e Chiara Gatti - 250 pezzi tra sculture, mobiles, disegni e cartamodelli, un percorso lungo nove elegantissime sale e l'idea di raccontare una protagonista assoluta dell'altra metà dell'avanguardia, una artista (e non una donna artista) che silenziosamente ma con ostinazione ha segnato con le sue invenzioni e le sue intuizioni un pezzo di '900, dal secondo Futurismo al MAC, il «Movimento arte concreta» a cui negli anni Cinquanta si avvicinò grazie a Bruno Munari.
Dalla tradizione all'avanguardia, dalla Lomellina al mondo: Regina studiò in collegio a Pavia, poi si diplomò all'Accademia di Brera, si perfezionò a Torino sotto la guida dello scultore Giovanni Alloati, quindi il ritorno a Milano, da dove di fatto non si allontanò più. Viaggiò poco - a Parigi, nel '37, dove conosce André Breton e il mercante Léonce Rosenberg - ma la sua «provincialità» dal punto di vista relazionale e sociale (ecco il ritratto della Signora provinciale, 1930-31) sarà sempre inversamente proporzionale all'internazionalità della sua visione e sperimentazione artistica. E mentre il marito, il pittore «ottocentesco» Luigi Bracchi, sposato nel 1921, dipinge i suoi paesaggi d'antan, lei taglia, piega, buca e sbalza fogli di alluminio, latta e celluloide, fili di ferro, stagno e carta vetrata, alla ricerca della leggerezza. E quando lui riceve in casa possibili acquirenti delle sue grandi tele, lei fa sparire le sue piccole sculture in un armadio. «Lavorò sempre in una dimensione d'appartamento, i suoi pezzi erano leggeri e di dimensioni ridotte, si spostavano in un attimo», racconta Chiara Gatti. «Era precisissima, anche nei minimi dettagli: abbiamo persino trovato maquette in miniatura fatte di carta piegata e poi fissata con gli spilli, come cartamodelli... Da lì nascevano le sue sculture, tagliando i fogli di alluminio, montando e riassemblando».
Figure che danzano, si piegano, siedono... in latta, ferro, alluminio... ballerine e donne abissine, tra primitivismo e art nègre, tra esotismo e realtà, astrazione e geometrie. Opere nuove e modernissime. Regina conosce Filippo Tommaso Marinetti, frequenta gli artisti del Secondo Futurismo, lavora con Fillia, nel 1934 firma il Manifesto tecnico dell'aeroplastica futurista, partecipa alle Quadriennali e alle Biennali degli anni Trenta e Quaranta, tra contaminazioni e libertà. Poi gli anni della guerra: si ritira in Valtellina dove disegna moltissimo (qui c'è un immenso «erbario» disegnato), osservando - scientificamente, non romanticamente - la natura: studi fiori, in particolare, che saranno alla base di tutta la sua produzione successiva. E poi, ecco le creazioni in plexiglas trasparente («Regina è la prima a farne un uso sistematico per le sue sculture, già nel 1949»), un materiale completamente nuovo, non di facile reperibilità, che recupera andando a saccheggiare i cupolini nei cimiteri degli aeroplani, dopo la guerra... Poi arriverà Bruno Munari e il gruppo del MAC, l'amicizia con Vanni Scheiwiller e la moglie Alina Kalczynska (che la adorano), poi la ricerca di un'astrazione sempre più pura, poi il plexiglas che si colora e si aggancia all'optical, e la smaterializzazione della scultura, sempre più aerea, leggera, che ci riporta in un tempo che sembra essere più il nostro, questo, che quello in cui Regina realizzò le sue opere.
Eccola la Regina autrice del nostro tempo che ci consegna la mostra di Bergamo e il percorso disegnato dai due curatori: una artista silenziosa che anticipa linguaggi poi affermatisi negli anni successivi; una artista che apre all'Europa e a una visione internazionale in un momento
storico non certo favorito dalla politica nazionale e nazionalista; e una artista che si riferisce sempre al minuscolo dato naturale per raggiungere il massimo dell'astrazione. La Regina che liberò la scultura dalla materia.
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