«Ho l'impressione che viviamo in una post modernità che a livello di valori è tentata di ritornare al Medioevo. Non solo in senso negativo, ma anche in termini di valori perduti. Ci sono un'identità e una spiritualità che si pensano al passato, e non al presente e al futuro». Tareq Oubrou, imam della moschea di Bordeaux, nato in Marocco 57 anni fa e da quasi quarant'anni in Francia, è consulente del ministero dell'Interno francese. Col comune di Bordeaux ha creato il Centro d'azione e prevenzione contro la radicalizzazione e ha ricevuto la Legione d'onore. È stato minacciato di morte dall'Isis. In un incontro a Milano con il cardinale Scola, organizzato da Fondazione Oasis (la rivista Oasis dedica il nuovo numero, appena uscito, proprio al tema «Tra immigrazione e islam. L'Europa si ripensa»), Oubrou si è presentato come «un teologo, un imam, ma anche un dottore, che pensa la sua religione nella civiltà occidentale».
Oggi, specialmente in Francia, la religione divide?
«Nella vita dei musulmani in Francia e in Occidente non c'è solo la religione, ma più elementi: una marginalizzazione economica e sociale; una visibilità etnica, per cui ci sono magrebini, arabi, turchi; e, su questo, si innesta una realtà religiosa. Chiamarla presenza musulmana è una semplificazione. D'altra parte, gli stessi musulmani spesso confondono la religione con la loro cultura».
In che senso?
«La religione è da sempre trasmessa attraverso una cultura, per esempio gli abiti. E spesso si pensa che questo sia l'islam».
Non lo è?
«È proprio a questo livello che i teologi devono marcare la differenza fra ciò che è culturale e il principio religioso. Io sono venuto dal Maghreb in Occidente, col mio bagaglio di cultura, tradizioni, etc. A questo punto devo fare una selezione: capire quello che devo trasmettere ai miei figli».
E dopo questa selezione?
«Devo mantenere e trasmettere ciò che è essenziale della religione, e per il resto integrare la cultura occidentale. È un lavoro che deve essere fatto, altrimenti l'islam sarà visto come una religione di rottura. Ci sono delle pratiche che tagliano fuori i musulmani dall'ambiente in cui vivono».
Quali sono?
«Per esempio, un salafita non si siede a tavola se c'è del vino. Così è per il mescolamento fra uomini e donne, o gli abiti. Il pudore è della fede, ed è richiesto; ma il portare un certo abito, o un velo, è un fatto culturale».
Nella quotidianità sembra andare diversamente.
«L'ortodossia è una cosa, l'ortoprassi un'altra. La fede è l'essenziale».
L'islam deve obbedire alla legge?
«Sì, l'islam deve adattarsi, a due livelli. A quello del diritto innanzitutto, che è necessario, ma non sufficiente. Per esempio, in Francia la legge non vieta di indossare il velo, ma spesso è la società che non lo accetta. Quindi io penso a un secondo livello: quello di adattamento alla mentalità, alla società. La cultura a volte è più normativa del diritto».
Per molti però l'Occidente è troppo tollerante, e l'islam troppo rigido.
«Perché molti musulmani pensano l'islam in termini di civiltà, e non di religione. Sbagliano registro. L'Occidente è una civiltà, l'islam una religione. Come l'islam si è adattato alla civiltà degli arabi, così può riadattarsi a quella occidentale: deve fare un processo di inculturazione».
L'islam può staccarsi dalla cultura araba?
«Si pensa che, poiché parla arabo, l'islam debba rimanere per sempre legato al mondo arabo. Ma l'adattamento del Corano alla cultura araba non significa una canonizzazione: è lo spirito del Corano che deve essere preservato, il messaggio. I musulmani sono molto fortunati a vivere in Occidente, che è tollerante: ma fanno molta fatica a rendersene conto, perché devono elaborare il lutto del passato, della civiltà arabo-islamica».
Come si fa a elaborarlo?
«Attraverso una riforma della teologia islamica. È una necessità, un obbligo, non una semplice opzione. Quando la realtà cambia bisogna ripensare la religione».
Che cosa bisogna riformare?
«L'uomo coranico, medievale, non è l'uomo di oggi. Non siamo più in un sistema patriarcale e tribale. Il rapporto uomo-donna deve essere rinnovato, secondo il principio dell'uguaglianza. Poi ci sono le questioni bioetiche, poste dalla scienza. Non c'è solo il velo... La teologia islamica deve affrontare gli stessi problemi di quella cristiana».
È quello che lei ha definito un «islam francese»? Nella pratica come funziona?
«Cerco di tradurre questi pensieri nella pratica... Per esempio, nella moschea di Bordeaux usiamo il francese nella liturgia; il sermone è in francese; anche l'insegnamento della religione, per oltre mille allievi, avviene in francese. Poi c'è lo studio dell'arabo per la lettura dei testi. Ci sono sempre più casi di imam arabofoni e francofoni, perché molti sono musulmani giovani, di seconda e terza generazione».
Che cosa insegnate in particolare?
«La teologia dell'altro, diversa da quella classica, che parlava solo ai musulmani; e la teologia preventiva, di deradicalizzazione».
A questo proposito, come funziona il centro di deradicalizzazione di Bordeaux?
«Al nostro centro contribuiscono in molti, fra i quali il Comune e la Prefettura. L'obiettivo è affrontare la radicalizzazione a partire dalle specificità dell'individuo. Non c'è uno schema predefinito, ma un team multidisciplinare di esperti, per realizzare una deradicalizzazione individuale».
È per tutte queste sue idee che è minacciato dallo Stato islamico? Ha paura?
«No, non ho paura... (ride) Sono un uomo di fede. Sono sereno».
Ci sono molti altri imam che dicono queste cose?
«Ce ne sono sempre di più, sì. È buon senso, e prima o poi prevarrà. O l'islam si adatta teologicamente, o lo farà per la forza della realtà».
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